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Sui generis. La forma del desiderio e il bel problema dell’essere umani e tecnologici

Pubblichiamo un estratto del libro di Michele Gerace “Sui generis. La forma del desiderio e il bel problema dell’essere umani e tecnologici” (Rubbettino), promosso dal Centro Studi Americani all’interno del programma “Alla scoperta dell’America”, nell’ambito dell’iniziativa “La forma del desiderio” della Scuola sulla Complessità

Di nuovo, la nostra risposta è squisitamente umana. Perché siamo fatti così. Non possiamo fare a meno di porci (o creare) problemi (o di diventare noi stessi il problema), riflettere sulla nostra condizione, di portarci al pascolo sempre un po’ più in là rispetto ai campi che già conosciamo, e di brucare e ruminare pensieri con la stessa passione con cui le vacche gnucche brucano e ruminano coloratissimi fili d’erba. E, come se non bastasse, siamo capaci di farlo di nostra iniziativa, per esuberanza semantica, a gratis, senza uno scopo, senza una ragione, senza che nessuno ci obblighi e senza fermarci, seppure qualcuno ce lo volesse vietare.

In questa facoltà sta tutta la differenza con la più sofisticata delle macchine o con l’intelligenza cosiddetta artificiale (debole, forte o super), che al contrario può mettersi in moto, calcolare, elaborare, rispondere, solo se riceve un input e non altrimenti. Ma di questo abbiamo scritto in tutto il libro.

Veniamo alla risposta sul perché la stiamo facendo lunga se non abbiamo una vera e propria conclusione che possa dare un senso a tutta questa storia. Bene, ci siamo. Il senso di tutta questa storia non è né più né meno che l’andare sconclusionato e nel frattempo rendersi conto di quello che, mentre andiamo, può farci salva la vita.

Abbiamo detto che siamo fatti di carne e di ossa, di testa, cuore e petto, e che pure siamo tecnologici da quando abbiamo capito perché e come si accende un fuoco. Abbiamo anche detto che da allora abbiamo capito tantissime altre cose che nel tempo ci hanno permesso di conquistare la terra, il fuoco, l’acqua e l’aria. L’averle capite è stato faticoso, ma ci è piaciuto. La conquista ancora di più.

Il fatto è che ci siamo fatti prenderela mano e più di una volta abbiamo rimosso alcuni limiti che pure ci siamo dati. Anche il rimuovere alcuni limiti ci è piaciuto molto, così tanto che, quando ne abbiamo avuto la possibilità, abbiamo pensato di poterli togliere del tutto, di poterne fare a meno, perché quei limiti riflettono una natura sui generis che lo specchiospecchio-delle-mie-brame ci dice che può essere più che umana e tecnologica, onnipotente e forse immortale.

L’immagine che abbiamo visto e quello che abbiamo ascoltato dallo specchio sono stati inebrianti e terrificanti. Alcuni si sono eccitati alla sola idea, altri spaventati a morte.

Quelli che si sono spaventati hanno iniziato a pensare che se è così che stanno andando le cose, tanto vale distruggere la macchina come provarono a fare il luddismo in Gran Bretagna o i butleriani nel fantascientifico romanzo di Dune, e rinunciare alla tecnologia. Gli altri si sono fatti prendere la mano e hanno iniziato a studiare il modo di metterla in quel -post all’umanità e di fare della tecnologia la religione di postumani di ultima
generazione.

Gli uni non si sono resi conto che è impossibile rinunciare alla tecnologia, dal momento che siamo tecnologici per definizione. Gli altri non hanno considerato che ancora oggi, nel nostro essere tecnologici, la sfida più difficile è la ricerca di essere umani, la conquista della nostra umanità. Ai poli opposti e di mezzo, il nostro bel problema.

Per gli uni e per gli altri la risposta non è meno scienza e meno tecnica, ma una scienza e una tecnica più raffinate e mature con le quali trovare soluzioni con somma diversa da zero a questioni (non a problemi, ma a questioni) vitali oggi impensabili e, se pensabili, impossibili, tra tutte quella di conciliare progresso, sostenibilità, risorse scarse e giustizia sociale.


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