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Vi racconto lo scenario sindacale della transizione energetica. Scrive Piras (Uiltec)

Di Daniela Piras

Le strategie in prospettiva per sostenere il settore industriale e quello dell’occupazione collegata. Ridurre la dipendenza energetica del Paese dall’estero è l’imperativo categorico di chi ha a cuore i problemi di bilancio delle famiglie e di chi tiene alla produttività delle imprese. L’opinione della segretaria generale di Uiltec

Ridurre la dipendenza energetica del Paese dall’estero. È l’imperativo categorico di chi ha a cuore i problemi di bilancio delle famiglie e di chi tiene alla produttività delle imprese. Tra questi ci siamo anche noi che ci preoccupiamo delle scelte di politica energetica da attuare nell’industria, ma soprattutto della tutela occupazionale, parte integrante della crescita sostenibile dell’economia.

Gas fonte primaria

A nostro giudizio il gas rimane tutt’ora centrale per il sistema energetico italiano ed anche per quello europeo. Si tratta di un ruolo destinato a perdurare, finché non sarà ultimata l’intera fase di transizione energetica. Il gas è la prima fonte del bilancio energetico italiano: conta quasi la metà della produzione elettrica e determina i prezzi dell’elettricità in borsa; copre il 60% dei consumi di energia del settore industriale e il 90% dei consumi per riscaldamento. La diversificazione degli approvvigionamenti di gas è divenuta necessaria con l’abbandono delle forniture dalla Russia, in particolare attraverso la realizzazione di nuova capacità di importazione a Sud e con rigassificatori come quello di Piombino e di Ravenna.

Da valutare positivamente sono: la costruzione di un gasdotto dalle riserve del Mediterraneo dell’Est; il raddoppio del Tap; il progetto del gasdotto Galsi, che permetterebbe il transito del gas dall’Algeria verso il Centro e il Nord dell’Europa, passando attraverso l’Italia. Al momento, la produzione nazionale di gas continua ad essere ferma ai minimi storici di tre miliardi di metri cubi su base annua, rispetto al picco di ben 21 miliardi di metri cubi registrato nel 1974, mentre i consumi odierni all’interno del perimetro nazionale abbisognano annualmente di circa 70 miliardi di metri cubi.

Raffinare petrolio

In Italia, il petrolio rimane la seconda fonte dopo il gas naturale, ma dominante nel settore dei trasporti, con una quota di circa il 30 per cento del totale dei consumi di energia in tutti i settori. L’Italia da decenni è un “hub” per i prodotti petroliferi al servizio della domanda non solo nazionale, ma per l’Europa e per tutto il Mediterraneo. La capacità di raffinazione nazionale è estremamente ridotta. Ecco perché non vanno chiuse le raffinerie tuttora operanti.

Fonti rinnovabili

Poi, ci sono le fonti rinnovabili: quelle dell’idroelettrico, dell’eolico e del fotovoltaico. Rappresentano un pilastro del sistema elettrico e soddisfano tra il 33% e il 40% del fabbisogno annuale del Paese, secondo gli andamenti climatici. Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima prevede una forte crescita delle rinnovabili, ma a questo riguardo esistono tre problemi che vanno risolti: il primo riguarda l’adeguamento delle reti e dei collegamenti; il secondo concerne i costi per il sistema che sono enormemente calati negli ultimi anni; il terzo si fonda sulla garanzia della sicurezza e dell’adeguatezza del sistema, dato che occorre scongiurare il fermo di altre centrali termoelettriche, a seguito del ridimensionamento attuato nell’ultimo decennio in cui si è passati da 77,8 a 60,6 GigaWatt.

Da considerare è anche l’utilizzo dell’idrogeno, dato che la produzione e la realizzazione di adeguate infrastrutture correlate per il trasporto può determinare importanti investimenti rivolti alla ricerca, lo sviluppo e l’occupazione. Importante sarà produrre l’idrogeno “verde”, quello che si realizza attraverso l’elettrolisi dell’acqua alimentata da energia rinnovabile, ma nel corso della transizione energetica occorrerà considerare pure quello “blu”, prodotto a partire dal metano con la cattura dell’anidride carbonica.

Troppi obblighi sull’elettrificazione dell’automotive

Un ragionamento di sano realismo merita, inoltre, l’elettrificazione che è alla base della strategia europea di decarbonizzazione. In alcuni casi, riteniamo, che ciò possa essere economicamente vantaggioso come avviene all’efficienza energetica applicata agli edifici. Per altri no, come nel settore dell’automotive.

Proprio qui, l’introduzione di obblighi eccessivamente onerosi, come il divieto di motore endotermico nelle nuove immatricolazioni dopo l’anno 2035, rischia di spiazzare non solo le attività di ricerca e sviluppo in corso in settori come quelli dei biocarburanti, ma intere filiere industriali. Siamo convinti che non si debba mettere interamente fuori gioco l’industria europea dell’auto e dei carburanti impegnata fortemente a ridurre le emissioni nocive.

Realizzare i termovalorizzatori

Infine, indirettamente collegato alla questione energia è il problema dei rifiuti che, dopo la fase di raccolta differenziata, possono dare un contributo alla riduzione della dipendenza da fonti fossili importate attraverso la realizzazione di termovalorizzatori per la produzione di elettricità o di calore. Mancano almeno cinque impianti nel centro sud d’Italia, a cominciare da quello di Roma Capitale, di cui si intravedono spiragli per la costruzione. Bisogna realizzarli tutti.

Gli impatti occupazionali

Siamo fermamente convinti che la gestione della transizione dovrà concentrare la massima attenzione dell’impatto sull’occupazione dei settori propri del ciclo dell’energia da fossili. Una strategia equilibrata dovrà sostenere nei prossimi trenta anni lo sviluppo di nuove filiere, senza perdere il patrimonio produttivo in essere, in particolar modo gli “asset industriali”, che sono parte strutturale dell’economia nazionale, incentivandone l’innovazione e la trasformazione.

Secondo i dati di diversi istituti specializzati e di agenzie internazionali i settori principalmente responsabili delle emissioni globali di Co2 sono il consumo energetico industriale con il 24,2%, le costruzioni con il 17,5%, i trasporti con il 16,2%, la combustione di carburante non allocato con il 7,8%, le perdite legate alla produzione di energia con il 5,8% e il consumo energetico per agricoltura e pesca con l’1,7%. Intervenire nella trasformazione e nella bonifica di queste aree merceologiche potrà creare opportunità occupazionali alternative per diversi anni. Il numero dei lavoratori che fanno riferimento ai Contratti nazionali di lavoro di competenza della Federazione sindacale nel comparto Energia è di 138 mila addetti, di cui 53mila del Ccnl Elettrico, 37mila del Ccnl Energia e Petrolio; 43mila del Ccnl Gas e Acqua; 5mila del Ccnl Miniere.

Considerando la filiera del ciclo del petrolio, del gas e delle attività estrattive, che sarà fortemente impattata dalle trasformazioni derivanti dalla transizione energetica, il numero degli addetti interessati corrisponde orientativamente a circa 60mila unità, che generano un moltiplicatore occupazionale dell’indotto (pari a quattro unità lavorative). Quindi saranno 250.000 i lavoratori coinvolti. Se a loro si aggiungono gli addetti di tutta l’industria manifatturiera e i servizi collegati al ciclo dell’energia, si arriva a determinare la cifra complessiva di oltre un milione di lavoratori.

È su questo montante di persone, ognuna con la propria storia professionale ed umana, che si dovrà programmare la politica occupazionale e sociale del Paese nella fase di transizione energetica. Sarà dunque fondamentale interagire con i programmi dell’Unione Europea a sostegno dell’occupazione e delle trasformazioni produttive. come il “Just Transition Fund”, ma saranno determinanti gli impegni per specifiche politiche attive, insieme a capillari interventi da parte di governo e amministrazioni regionali per il finanziamento di ammortizzatori sociali appositamente dedicati.

Nella contrattazione nazionale e nelle politiche di reclutamento delle risorse umane delle aziende sarà necessario tenere conto della centralità della formazione di nuove professionalità e della riconversione professionale dei lavoratori dei settori interessati. La contrattazione nazionale rimane lo strumento fondamentale per definire sistemi classificatori flessibili ed in grado di includere le nuove professionalità. Per il sindacato la transizione in atto è energetica, ma soprattutto sociale. Tradotto: lavorare per il “Green deal” significa farlo poggiare su un solido “Social deal”.

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