Di comune accordo col Qatar, gli Stati Uniti si sono mossi per evitare che l’Iran possa accedere ai miliardi congelati sulla scia dello scoppio del conflitto tra Israele e Hamas – che Teheran sostiene entusiasticamente. Una mossa necessaria. Ma l’inasprirsi dei rapporti può provocare effetti indesiderati e allontanare la stabilizzazione sia a breve che a lungo termine
Il conflitto in corso tra Israele e Hamas si sta già ripercuotendo nella ragnatela delle relazioni internazionali, specie quelle tra due convitati di pietra ai tavoli mediorientali: Stati Uniti e Iran. I sospetti sul possibile coinvolgimento iraniano sono emersi a strettissimo giro, nelle ore delle congratulazioni del presidente iraniano Ebrahim Raisi al leader dei terroristi di Hamas, Ismail Haniyeh per la “grande vittoria” – vale a dire, il brutale macello di civili israeliani indifesi.
Finora il consigliere alla sicurezza della Casa Bianca Jake Sullivan si è limitato a definire Teheran “complice di questo attacco in senso lato”, in virtù del supporto politico e finanziario che ha garantito a Hamas negli scorsi decenni. Nessuna accusa diretta, dunque. Gli Stati Uniti sono consci delle potenzialmente immense conseguenze di addossare corresponsabilità su uno Stato (seppur per via indiretta) di uno dei più gravi atti di terrorismo della Storia recente.
Tuttavia, anche mentre esaminano il collegamento tra Iran e l’eccidio di Hamas, gli Stati Uniti hanno già reagito al cambiamento dello status quo mettendo un freno ai negoziati diplomatici con il regime islamico. Giovedì è emerso che Usa e Qatar – Paese non insensibile alla causa di Hamas e storico mediatore tra Washington e Teheran – abbiano raggiunto un’“intesa silenziosa” per impedire che l’Iran possa accedere ai 6 miliardi di dollari scongelati dagli Usa nell’ambito di un accordo sullo scambio di prigionieri.
La mossa sembra una risposta alla richiesta bipartisan del Congresso Usa di congelare o fondi, collegato a un negoziato già molto controverso, il cui proseguimento sarebbe apparso quanto mai inopportuno in un momento così delicato.
Secondo il Washington Post il vice segretario al Tesoro Wally Adeyemo ha detto ai suoi compagni di partito (a porte chiuse) che quel denaro non sarebbe “andato da nessuna parte”. Poi giovedì, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby ha dichiarato alla stampa che “ogni singolo centesimo di quel denaro è ancora nella banca del Qatar”, dove risiedono i fondi congelati, sotto il monitoraggio costante di Washington.
Rientrando da una visita in Israele, il segretario di Stato statunitense Antony Blinken non ha confermato esplicitamente che il denaro iraniano è stato bloccato, affermando solo che permangono limiti “rigorosi” su come l’Iran potrebbe utilizzarlo (per scopi strettamente umanitari, secondo quanto previsto dall’accordo) e che gli Stati Uniti “mantengono il diritto di congelarlo”. Non è d’accordo la missione iraniana alle Nazioni Unite, che ha affermato che i soldi in mano a Doha appartengono a Teheran e che il governo statunitense non può “rinnegare l’accordo” che ha già portato alla liberazione di cinque cittadini statunitensi.
Certamente l’episodio ha danneggiato i cauti sforzi statunitensi per distendere i rapporti con il regime iraniano. E come ha confermato mercoledì la segretaria al tesoro Janet Yellen, la Casa Bianca sta considerando di imporre nuove sanzioni sia su Hamas che sull’Iran.
Ma il timore (che cade in periodo pre-elezioni) è che Teheran reagisca scendendo dagli spalti ed entrando direttamente in campo, magari utilizzando una delle sue leve più potenti, quella del petrolio, limitando il flusso di petroliere attraverso lo stretto di Hormuz, snodo cruciale per il commercio globale di greggio e chokepoint energetico ad altissima securitarizz. Una mossa che causerebbe lo shock del prezzo petrolifero paventato da Giorgia Meloni e che si innesterebbe su una crisi energetica già in corso da oltre un anno.
L’altro fronte, quello politico, chiama in causa il processo di stabilizzazione a breve e lungo termine del Medioriente – tra cui spiccava la crescente normalizzazione dei rapporti tra Israele e Paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, Sudan e possibilmente Arabia saudita) nel solco degli Accordi di Abramo promossi dagli Stati Uniti.
Naturalmente, tra gli scopi di Hamas c’è il deragliamento di questo processo: in un discorso trasmesso sulle reti televisive, il capo dei terroristi ha avvertito i Paesi arabi che Israele “non [li] può proteggere”. E sarebbe un buon tornaconto per l’Iran, che ha solo da perdere nella cooperazione nel campo della difesa tra Israele e gli altri Paesi arabi desiderosi di rispondere alla minaccia posta da Teheran.
Livello ulteriore, quello geopolitico. I Paesi arabi, in primis l’Arabia Saudita, stanno lavorando anche con Teheran per evitare gli effetti di un’escalation. L’allargamento del conflitto innescherebbe pesanti ripercussioni regionali: potrebbero essere coinvolte le milizie libanesi, siriane, irachene collegate all’Iran, potrebbero esserci sfoghi di vario genere in dossier aperti come lo Yemen, potrebbero innescarsi riflessi nel mondo jihadista. La diminuzione del contesto securitario generale avrebbe ripercussioni economiche e commerciali andando subito a colpire il mercato energetico — solitamente sempre molto sensibile a certe dinamiche.