Gianni Alemanno lancia il guanto (rigorosamente destro) di sfida a Giorgia Meloni. Sia mai che abbia in mente di riavvolgere il nastro di An, reciso dalla premier nel tentativo di recuperare l’ortodossia missina? Non è che, per caso sta cercando di tornare sulle orme di Fini per completare quel cantiere della nuova destra abbandonato dopo il naufragio di Futuro e Libertà? Decisamente no…
“Fratelli d’Italia è un partito conservatore, liberista, ultra-atlantista: mi fa rimpiangere Andreotti, Fanfani, Moro e Craxi”. La tocca pianissimo, Gianni Alemanno, che nel fine settimana si prepara a lanciare il guanto (rigorosamente destro) di sfida a Giorgia Meloni. Lo farà da quell’Hotel Midas in cui, trentenne, venne scelto come successore di Gianfranco Fini alla guida del Fronte della Gioventù. Era il 15 maggio 1988: una domenica, proprio come questa volta. Tra i presenti a quella terza Assemblea nazionale del Fronte un non più giovane Ignazio La Russa, Fabio Rampelli, Maurizio Gasparri e Gennaro Sangiuliano, solo per citare gli attuali esponenti di maggioranza con incarichi parlamentari o di governo: camerati che sbagliano, nella versione di Gianni.
Ad accompagnare Alemanno nella sua nuova avventura sovranista l’ex colonnello finiano Fabio Granata – eletto in quella domenica di maggio suo vice alla guida del Fronte – e Marcello Taglialatela, altro nome di peso della Destra sociale con un cursus honorum da ex Msi, ex An ed ex Fratelli d’Italia. Il logo del nuovo partito (niente si sa ancora del nome) sarà invece affidato a una vecchia conoscenza: il pubblicitario Massimo Arlechino, ideatore nel ‘95 del simbolo di Alleanza Nazionale e oggi presidente del “Forum dell’Indipendenza italiana”. Lo stesso Arlechino che, durante la campagna elettorale per le Comunali di Roma del 1993, fu artefice dello strepitoso cambio di immagine di Fini, ritratto sui manifesti in un’inedita posa plastica con tanto di giacca sulla spalla (rigorosamente destra). Sia mai che Alemanno abbia in mente di riavvolgere il nastro di An, reciso da Giorgia Meloni nel tentativo di recuperare l’ortodossia missina? Non è che, per caso, l’ex ministro dell’Agricoltura sta cercando di tornare sulle orme di Fini per completare quel cantiere della nuova destra abbandonato dopo il naufragio di Futuro e Libertà? Decisamente no. Sanguigno, combattivo e non allineato qual è, Gianni Alemanno è quanto di più lontano si possa immaginare dal compassato, elegante e istituzionale Gianfranco Fini, homo totus politicus: barese l’uno e bolognese l’altro, delfino (e poi genero) di Pino Rauti l’uno e delfino (e poi erede) di Giorgio Almirante l’altro, sindaco di Roma eletto l’uno (primo e finora unico postfascista al Campidoglio) e sindaco di Roma mancato l’altro, apostolo dello “sfondamento a sinistra” l’uno, alfiere della liberaldemocrazia l’altro.
Gianni Alemanno è sempre lui, proprio come il Marlon Brando della canzone di Ligabue. Qualche capello bianco in più, certo, e poi quel nuovo look da barbudo. Al collo non porta più la croce celtica appartenuta all’amico Paolo Di Nella, morto appena ventenne nel febbraio dell’83 dopo essere stato aggredito a sprangate da anonimi militanti di Autonomia Operaia mentre attaccava manifesti nel quartiere Africano. A vegliare sul suo letto d’ospedale durante la drammatica settimana di agonia che lo porterà alla morte c’era anche lui, Alemanno, che in tutti questi anni ha continuato a chiedere giustizia senza mai ottenere risposte. Al Policlinico Umberto, in quella drammatica settimana, vennero anche il sindaco della Capitale Ugo Vetere e il capo dello Stato Sandro Pertini. Un comunista e un socialista a indicare che basta, non se ne poteva davvero più di quella interminabile stagione di violenza politica. Una stagione, quella degli anni di Piombo, di cui Paolo Di Nella rimase vittima “fuori tempo massimo”.
Per tutto il resto, Gianni Alemanno è rimasto uguale. Anzi, se possibile, oggi sembra voler spingere ancor più alle estreme conseguenze il credo di una vita interamente votata alla militanza. E così lo ritroviamo – come ai bei vecchi tempi – antiamericano fino al midollo (celebre il suo arresto durante le proteste per la visita di Bush Senior al cimitero militare di Nettuno nel maggio ‘89), Nato-scettico, euroscettico, contrario all’invio di armi all’Ucraina, 2 deluso dal successo di Milei in Argentina, polemico nei confronti del governo “di estrema destra” di Netanyahu in Israele (altro che Fini con la kippah allo Yad Vashem!), antiliberista, anti-premierato e pure anti-green pass.
Le avvisaglie di un suo ritorno nell’agone politico si erano già avute la scorsa estate a Orvieto, storico buen retiro della Destra sociale. Lì, a fine luglio, Alemanno aveva radunato un bizzarro coacervo di orfani ex missini, leghisti eterodossi ed esponenti della galassia no-Vax allo scopo di scongiurare il pericolo di un appiattimento dell’Italia sul pensiero unico dello Zio Sam. Messaggio efficacemente riassunto nello slogan della due giorni orvietana “Per non morire americani”. “Nel Msi e in An hanno sempre convissuto due destre, una sociale e una conservatrice-liberista – spiegava in quei giorni alla Stampa – Meloni ha rotto questo equilibrio e cancellato la destra sociale”.
Pronti, via: da allora un bombardamento lento ma costante sul quartier generale di via della Scrofa, un crescendo rossiniano che oggi diventa sfida a viso aperto nel sogno proibito del sorpasso a destra. Già, perché, se gareggi a fare il sovranista – diremmo con il vecchio Pietro Nenni – trovi sempre uno più sovranista che ti epura. E se non ti epura, dà comunque fastidio, cosa che a Salvini non dispiace affatto.
Ora, sia dia il caso che Giorgia Meloni avrebbe anche la possibilità di replicare personalmente alle critiche dell’ex collega di Fiamma: anche alla premier, infatti, è stato recapitato in qualità di presidente di partito l’invito alla kermesse del Midas. Difficile però che la leader di Fratelli d’Italia accetti di presenziare, a dispetto di quanto da lei stessa dichiarato dopo il “gran rifiuto” di Schlein ad Atreju: “Mi sono sempre presentata quando sono stata invitata”. Chi sicuramente ci sarà, invece, è il padre padrone di “Sud chiama Nord” Cateno De Luca, reduce dalla sventurata trasferta brianzola delle suppletive di Monza per il seggio senatorio lasciato vacante da Silvio Berlusconi.
E poi c’è lui: Marco Rizzo, il compagno in partibus infidelium, “il comunista in camicia nera”, per riprendere il titolo della biografia di Nicola Bombacci scritta da Arrigo Petacco. Cosa ci fa il presidente onorario del Partito Comunista in mezzo a questo manipolo di ex camerati (anzi no, perché “non siamo né di destra né di sinistra e bisogna andare oltre queste logiche”)? Si confronta, discute, cerca possibili sinergie: se una qualche “convergenza parallela” si trova è bene, altrimenti amen e nemici come prima. Ma semmai la cosa dovesse funzionare, non chiamateli rosso-bruni.
Attesi al Midas – oltre ai più volenterosi tra i leader di partito – anche 427 delegati da tutta Italia chiamati a eleggere gli 80 componenti della direzione nazionale che si incaricherà di esaminare le decisioni da prendere. E anche in fretta, perché “le Europee sono dopodomani, e noi dobbiamo ancora esistere”. E se alle regionali non è escluso l’appoggio a liste civiche qua e là dislocate, vero obiettivo restano le politiche, “che a mio avviso saranno anticipate”: “In quell’occasione – spiega Alemanno – dobbiamo assolutamente essere presenti, a meno che non ci sia un cambiamento totale di politica da parte dell’attuale governo, ma non penso che questo avverrà”. Lui, intanto, ci crede, perché – come diceva quella vecchia reclame con Tonino Guerra – “l’ottimismo, Gianni, è il profumo della vita”.