Pubblichiamo la prefazione di Michela Mercuri, esperta di geopolitica e docente all’Università degli Studi di Padova, al libro “Atlante delle bugie. Come gestire le fonti estere e distinguere una notizia vera da una fake news” (Paesi edizioni) di Francesco Petronella
(…) Il tema della post verità e delle fake news è da tempo al centro del dibattito sulla scena della comunicazione e della politica internazionale. L’Oxford Dictionary ha eletto post verità parola dell’anno già nel 2017. La sua definizione contrappone i «fatti oggettivi» agli «appelli alle emozioni e alle credenze personali» evidenziando come questi ultimi svolgano, oggi, un ruolo più importante rispetto al passato nel formare l’opinione pubblica. Fake news era già stata eletta parola dell’anno nel 2016 dall’australiano Macquarie Dictionary, secondo il quale con questo termine «si identifica un’interessante evoluzione nella creazione di contenuti ingannevoli».
Eppure, quelle che oggi chiamiamo fake news non sono certo cosa recente. Robert Darnton, uno storico statunitense, ha ricostruito la storia della disinformazione a partire dal VI secolo d.C. osservando come l’uso manipolatorio delle informazioni fosse in grado di passare attraverso diverse modalità. Si pensi ai canard (pettegolezzi), fogli distribuiti nelle strade di Parigi con notizie spesso ingannevoli, fino ad arrivare ai giornali londinesi di fine Settecento quando, secondo lo stesso studioso, le notizie false hanno raggiunto il proprio picco.
Discorso in parte simile può essere fatto per la propaganda, soprattutto in tempi di guerra. Il suo compito è quello di costruire, attraverso la creazione di un’identità collettiva e il richiamo al patriottismo, la fiducia nella leadership e le sue decisioni e, al contempo, di denigrare l’avversario e sconfiggere i suoi sforzi propagandistici. D’altra parte, come affermava Voltaire, «la guerra è il più grave di tutti i reati. Nonostante ciò, non esiste aggressore che non colorerebbe il proprio delitto con una giusta scusa».
Oggi i social media hanno ulteriormente complicato lo scenario: chiunque può accedere a innumerevoli fonti e, allo stesso tempo, creare un contenuto informativo con bassi costi e alte potenzialità di diffusione. Tutto a detrimento delle capacità di comprensione di realtà multiformi, ma volutamente semplificate per evitare una concreta presa di coscienza della complessità degli eventi. Le conseguenze ce le spiega bene l’autore, basandosi su ricerche e dati scientifici: «la difficoltà nel comprendere un testo dotato di un minimo di complessità riguarda quasi un italiano su due, la metà della popolazione del nostro Paese».
In che modo, allora, si possono comprendere realmente eventi che accadono dall’altra parte del mondo senza doversi necessariamente recare sul posto? Come deve essere ricercata la fonte della notizia? E, soprattutto, esistono strumenti per capire se la notizia è reale o è una fake news? Sono queste alcune delle domande a cui Francesco Petronella risponde in maniera puntuale, forte della sua esperienza di giornalista di Esteri, riuscendo a raccontare con esempi concreti e immagini come funziona il «dietro le quinte» del mondo dei media e ponendoci davanti a quesiti che spesso diamo per scontati. In primo luogo, chi mi sta dando questa notizia? Detta in altri termini: qual è la fonte? In pochi se lo chiedono quando velocemente leggono una notizia cliccando, nella maggior parte dei casi, la parola chiave su un motore di ricerca di Internet.
E qui si apre un mondo che non può non lasciare perplesso chi legge. Ma chi ha detto realmente ciò che sto leggendo? Se leggo la notizia su un famoso quotidiano, spesso può accadere che questo rimandi all’agenzia che ha lanciato la notizia, ma fermarsi qui potrebbe essere riduttivo. A volte l’agenzia riporta anche il nome del politico dalle cui dichiarazioni è stato realizzato l’articolo. Se invece si parla di «fonti governative» generiche, il tema cambia notevolmente, perché la fonte è «coperta». A questo punto è naturale chiedersi, quale messaggio si voleva realmente mandare alla stampa e perché in quel momento? Le risposte a queste domande vengono ipotizzate nel libro con dovizia di esempi che non possono non stupire il lettore. Così come non può non stupire il lettore l’analisi delle fonti di parte e della propaganda. Anche in questo caso la storia ci insegna che i media in contesti di guerra possono diventare vere e proprie armi. Come non dare ragione a Churchill quando, ormai quasi ottant’anni fa, sarcasticamente diceva che «in tempo di guerra la verità è un bene così prezioso che bisogna difenderlo con una guardia del corpo di bugie».
Il conflitto in Siria, analizzato in maniera esemplare dall’autore, è un esempio plastico. Fin dai primi giorni delle proteste le informazioni erano profondamente dissonanti. A metà marzo del 2011 il malcontento popolare divampava in tutto il Paese e decine di manifestanti si riversavano nelle strade della città vecchia di Damasco invocando a gran voce la caduta del regime. I video di questa manifestazione vengono presto caricati sui vari social network. Il giorno successivo Al Jazeera riporta le dimostrazioni avvenute il 15 marzo sottolineando l’unicità degli eventi in corso. Diversamente la Syrian Arab News Agency (Sana), ovvero l’agenzia ufficiale siriana sotto stretto controllo statale, non riporta notizie sulle manifestazioni in corso nella capitale e preferisce catalizzare l’attenzione sull’avvenuto arresto da parte delle forze speciali di Ḥusseyn Maruān al Za’bī, sorpreso a piazzare un ordigno esplosivo nei pressi di Sūmeiyrah nella periferia di Damasco.
Fin dall’inizio di una delle guerre più sanguinose del nostro secolo, era evidente come la scarsità di fonti neutrali avrebbe condizionato la percezione della guerra.
L’ingresso di attori esterni nel conflitto, come la Russia schierata con la compagine pro Assad, ha contribuito non solo a tenere in piedi il regime ma anche a sostenere mediaticamente le posizioni assadiste. Le modalità sono estremamente dettagliate nel testo. Qui, riprendendo le parole dell’autore, ci si limiterà a ricordare come i media russi abbiano usato il mantra dell’«islamizzazione del fronte di opposizione al regime per ricostruire pezzo per pezzo l’immagine di Assad, ponendo l’Occidente di fronte a un aut aut. Da una parte c’è Assad, dall’altra i terroristi islamici. Una semplificazione grossolana, ma efficace».
Scenario simile anche per la guerra in Ucraina in cui la propaganda ha scandito e continua a scandire ogni momento del conflitto da ambo le parti. Da parte di Kiev, per animare la reazione della popolazione e per orientare parte dell’opinione pubblica internazionale e le decisioni degli alleati euroatlantici. Da parte russa, invece, se da un lato viene limitato il racconto delle operazioni e del numero dei caduti per minimizzarne la gravità del conflitto, dall’altra, l’utilizzo di scenografie spesso sontuose scelte da Putin per i propri interventi pubblici, enfatizza l’aspetto imperiale della sua leadership. Cosa che, per quanto possa apparire strana, è apprezzata da una fetta della popolazione russa. Come è facile immaginare, con pochissime informazioni raccolte sul campo da fonti indipendenti e un flusso continuo di contenuti sui social, l’informazione rischia di divenire, suo malgrado, megafono per le rispettive propagande.
In questa storia che sembra ripetersi, il nostro sguardo non può non volgersi indietro e ricordare che le violenze subite dalla popolazione del Kuwait occupato, perpetrate dalle truppe di Saddam Hussein, erano documentate in servizi video in gran parte falsi; la «madre di tutte le bufale» degli arsenali di bombe chimiche irachene (mai trovate) con cui l’amministrazione americana giustificò la Seconda guerra del Golfo; la falsa notizia, o comunque molto esagerata, diffusa dai media occidentali, di decine di migliaia di morti negli scontri del 2011 in Libia a causa delle violenze di Gheddafi per giustificare l’intervento internazionale. L’elenco potrebbe continuare.
Dalla Prima guerra mondiale ad oggi, i conflitti bellici e le situazioni di transizione politica violenta rappresentano situazioni ideali per il fiorire di questa forma di menzogna: la confusione che si genera in tali contesti, unita alla difficoltà per testimoni imparziali di accedere al teatro degli eventi con la conseguente manipolazione delle fonti, favorisce la possibilità di vantare vittorie mai ottenute, di attribuire ai nemici atrocità che colpiscano negativamente l’opinione pubblica, spesso avvalendosi di immagini fotografiche o audiovisive abilmente contraffatte. La storia delle guerre diventa, così, un grande «Atlante delle bugie» che per essere letto in maniera corretta necessita della «cassetta degli attrezzi» che Francesco Petronella ci mette generosamente a disposizione.
(Foto di u_5785qxtfen da Pixabay)