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Poche certezze e troppo Stato. Perché gli investitori girano al largo da Pechino

Tensioni geopolitiche, strette normative, spinte stataliste, intorbidimento dei confini tra pubblico e privato, rallentamento economico, prospettive macro più fosche e non solo. Per la prima volta da quando si è aperta al mondo la seconda economia mondiale sta vedendo defluire i capitali esteri. Ecco cosa porta gli investitori a temere il Dragone

Ci sono forti raffiche di de-risking occidentale tra i venti contrari che stanno flagellando l’economia cinese, i primi frutti delle considerazioni di natura geopolitica che le aziende estere si trovano a fare sempre più spesso. Nel periodo luglio-settembre Pechino ha registrato il suo primo deficit trimestrale di investimenti diretti esteri, metrica che indica un deflusso di capitali. A ottobre il settore manifatturiero cinese si è inaspettatamente contratto, e in parallelo le esportazioni hanno accelerato il loro declino, a diversi mesi da quando il premier Li Qiang ha dato il via a una serie di misure per attrarre investimenti esteri.

Non sono solo l’assertività crescente di Pechino e le tensioni con Washington. Sulle valutazioni di chi guarda da fuori pesano una serie di fattori, tra cui un campo di gioco generalmente favorevole per le aziende statali e la pressione che alcune realtà straniere hanno subito per via dell’inasprimento delle normative e delle leggi anti-spionaggio. Rimangono preoccupazioni persistenti dopo gli interventi a gamba tesa del partito-Stato sui settori a forte crescita come tecnologia (la saga Jack Ma) e istruzione. E anche il rallentamento economico interno porta a interrogarsi sulle prospettive a lungo termine per la prima volta da quando l’ex Celeste Impero si è aperto agli investimenti stranieri.

Reuters evidenzia la nota di un ricercatore senior del Peterson Institute for International Economics, secondo cui le imprese straniere non solo non reinvestono gli utili in Cina, ma stanno vendendo gli investimenti esistenti e rimpatriano i fondi. Si essiccano anche i fondi del mondo del private equity, segnatamente i fondi di buyout focalizzati sulla Cina, che passano dai 13,2 miliardi di dollari nel 2019 a zero nel 2023 (al 24 novembre) secondo i dati di Preqin, i quali per altro indicano in parallelo un dirottamento di capitali altrove nel Sudest asiatico. Un altro economista citato dalla testata britannica ha parlato di “prospettive oscure per il mercato dei capitali”.

C’è poi il tema della tendenza del governo centrale di fondere gli interessi statali e privati, emersa nel 2013 sotto il nome di “riforma della proprietà mista” e bandiera dell’economia secondo Xi Jinping, esplorata a dovere dall’Economist. La spinta dirigista ha portato il partito-Stato a esercitare maggior controllo sulle imprese private, tra delegati del Partito nei cda e golden share statali. Secondo Fitch, tra il 2019 e il 2021, una media di 50 aziende statali all’anno si sono impossessate di realtà private quotate; oggi solo il 39% di quelle sui listini cinesi rimangono realmente private (erano il 55% nel 2021).

Tutto ciò intorbidisce i confini con il pubblico – cosa che porta i privati nel mercato a chiedersi se abbia senso sfidare chi già ci opera ed è sorretto da Pechino con strumenti come i prestiti agevolati (preoccupazione-chiave dell’Ue) o social scoring aziendale che premia sempre le aziende con legami al Partito comunista cinese. “Le aziende cinesi possono essere veramente private?” si chiede un rapporto recente del Center for Strategic and International Studies. Le conclusioni: con questi e altri strumenti Pechino esercita un’influenza sempre più pressante su tutte le realtà cinesi.

Serve più analisi per capire le implicazioni per l’autonomia delle aziende estere, ma la confusione è sufficiente a far storcere il naso ai potenziali investitori. Specie se si prende nota del fatto che la direzione del governo di Xi, che sembra guardare alla sicurezza nazionale più che alla crescita, sembra essere quella del dirigismo tout-court. Persino le famiglie cinesi più facoltose, temendo per la sorte dei loro capitali, stanno trovando modi fantasiosi per spostarli all’estero senza incorrere nelle ire delle autorità, rileva il New York Times.

Il sentiment è stato recepito anche da Goldman Sachs, che vanta una presenza storica e legami profondi con la Cina – dal 1994. Nelle parole dell’ad David Solomon al Financial Times, la banca d’investimento ha sposato un approccio più conservativo a causa delle tensioni tra Usa e Cina e scardinato la strategia di “crescita a tutti i costi” che attuava fino a cinque anni fa, riducendo le risorse finanziarie destinate al Dragone. Anche se le relazioni tra i due giganti volgessero al meglio, ci vorrebbero anni per risolvere le profonde differenze: tempo che si traduce in incertezza e una perdita di attrattività.


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