I palestinesi continuano ad addebitare la loro condizione marginale agli ebrei o all’Occidente non rendendosi conto che, come nella gran parte del mondo musulmano, sono i rispettivi governi a determinare condizioni di povertà e marginalità. Scrive Elio Cadelo, già inviato speciale del Giornale Radio Rai
Le diverse leadership che nel tempo si sono avvicendate alla guida dei palestinesi hanno avuto tutte un lato oscuro che continua a pesare sulle scelte e sulla loro credibilità politica poiché nessuna di esse ha mai voluto fare i conti con la storia recente e intraprendere un percorso nuovo in discontinuità con il passato. L’addestramento nei campi estivi dei ragazzini alla guerriglia e al terrorismo contro gli ebrei è solo l’ultima, ma significativa, dimostrazione dell’incapacità della società palestinese di tentare un benché minimo cambio di rotta per uscire della eterna, quanto inutile, guerra contro gli Israeliani. Per comprendere il circolo vizioso e ripetitivo che, come in un incubo, reitera sempre le stesse vicende, è necessario riavvolgere il nastro della storia per cercare di comprendere il loop nel quale si è rinchiusa la politica palestinese.
Gli europei hanno fatto presto a dimenticare che i palestinesi si affacciarono prepotentemente, e per la prima volta, sulla scena politica europea grazie ad Amin al-Hussayni, gran mufti di Gerusalemme. Era il 1938 quando il premier britannico Neville Chamberlain, insieme alle altre potenze occidentali, concesse ad Adolf Hitler un pezzo di Cecoslovacchia in cambio di un’effimera pace. In quello stesso anno si gettarono le basi ideologiche e militari per un’alleanza islamico-nazista che fu sancita in una dichiarazione di al-Hussayni nel quale disse senza mezzi termini che con il Führer “abbiamo un nemico comune gli inglesi, gli ebrei e i bolscevichi”. D’altro canto, Hitler nel suo libro Idee sul destino del mondo aveva già dichiarato la sua simpatia verso l’islam: “Se a Poitiers, Carlo Martello fosse stato sconfitto il mondo avrebbe cambiato faccia. Poiché il mondo era già condannato all’influenza giudaica (e il suo prodotto il cristianesimo è cosa così insipida), meglio sarebbe stato se avesse trionfato l’islam. Questa religione ricompensa l’eroismo, promette ai guerrieri le gioie del settimo cielo. Animati da un simile spirito, i germani avrebbero conquistato il mondo. Ne sono stati impediti dal cristianesimo”.
Nei dieci anni precedenti quest’alleanza, che durò fino alla fine del Reich, al-Hussayni si era distinto per le sue predicazioni in Palestina nelle quali aveva incitato gli Arabi a prendere le armi per massacrare tutti gli Ebrei. Fu uno dei più accesi sostenitori della “soluzione finale” tanto che spese moltissime energie per sabotare i negoziati tra gli alleati e i nazisti per la liberazione di prigionieri tedeschi in cambio della fuga verso la Palestina di 4.000 bambini ebrei, altrimenti destinati ai forni crematori. In nome dell’alleanza con Hitler e dell’antisemitismo reclutò oltre 300.000 musulmani nelle fila dell’esercito nazista tra i quali oltre 30.000 palestinesi che vennero tutti addestrati e indottrinati in caserme appositamente costruite non lontano da Amburgo.
Benito Mussolini non fu da meno. Il 10 ottobre 1941 Al- Hussayni si recò a Roma per perorarne la sua causa ottenendo dal Duce la costituzione di un gruppo militare che farà parte del Centro militare “A”, poi Gruppo formazioni “A” (dove A sta per Arabi), costituito il 1º maggio 1942 al comando del maggiore Ugo Donati. Fu il primo nucleo del Raggruppamento centri militari, una delle unità straniere del Regio esercito italiano. Alla sua massima espansione organica, il reparto contava su 110 volontari arabi e palestinesi e fu inviato in Nord Africa per rafforzare le forze dell’Asse. Dopo i rovesci militari africani i superstiti sostennero la Repubblica Sociale Italiana di Salò.
In Italia, sul finire della Seconda guerra mondiale, i palestinesi si distinsero in numerose operazioni contro i partigiani. In Emilia erano il terrore della popolazione che li chiamava i mujahidin. Operarono in gran parte sull’Appennino parmense, reggiano e modenese. Il 10 gennaio del 1945 un drappello di nazisti (dentro le divise c’erano però palestinesi e croati) incrociò un gruppo di partigiani appartenete alla 31a Brigata Garibaldi cui si erano aggiunti alcuni militari renitenti della Varano Melegari. I mujahidin ebbero il sopravvento e, dopo una giornata di combattimenti, tutti i partigiani furono uccisi. Seguirono rastrellamenti, saccheggi ed esecuzioni sommarie soprattutto tra Scandiano e Baiso. Per quella, come di altre stragi, nessun esponente palestinese ha mai presentato scuse. E gli Italiani hanno fatto presto a dimenticare!
Dopo la guerra, al-Ḥussayni si rifugiò in Svizzera ma fu arrestato e messo agli arresti domiciliari in Francia da dove scappò in Egitto dove ottenne asilo. In molti si rivolsero inutilmente alla Gran Bretagna perché lo incriminasse come criminale di guerra. I britannici non acconsentirono per non accrescere i loro problemi in Egitto e Palestina, dove al-Ḥussayni era molto popolare. Anche la Jugoslavia chiese senza successo la sua estradizione. Il rapporto del Comitato d’inchiesta anglo-americano datato 20 aprile 1946 affermò che “l’attivo sostegno all’asse” di al-Ḥussayni “non gli ha fatto perdere seguito ed egli è oggi il più popolare leader in Palestina”.
Grazie a questa libertà, e anche all’enorme quantità di danaro accumulato, organizzò la fuga dalla Germania di un gran numero di ufficiali e dirigenti nazisti. Furono falsificati i loro documenti e trasformati in ebrei in fuga e affidati a organizzazioni cattoliche che li aiutarono a raggiungere vari Paesi del Medio Oriente dove, grazie a una fitta rete filonazista, furono ospitati in Egitto (Anwar al-Sadat fu una spia al servizio dei nazisti), in Iraq, in Siria, in Libano e altri Paesi arabi. Tra i molti sfuggiti al tribunale di Norimberga è impossibile dimenticare Alois Brunner: ufficiale delle SS, che si rifugiò in Siria dove Hafiz al-Assad (padre dell’attuale leader) lo nominò responsabile dei servizi segreti interni dove insegnò come torturare i prigionieri politici. Morì a Damasco nel 2010 dopo gli inutili tentativi di estradarlo da parte della Francia dove era stato condannato per l’assassinio di 30.000 cittadini francesi.
La gran parte degli ufficiali nazisti cambiò nome e religione e partecipò alla fondazione di diversi gruppi e partiti neonazisti che, dopo la guerra, cominciavano a nascere il tutto il Medio Oriente, come il partito Baath, che significa Resurrezione.
Molti dei reduci palestinesi che avevano combattuto nelle fila naziste in Europa e sul fronte russo, entrarono a far parte di una a rete politica che si insediò in amministrazioni e istituzioni locali.
Dall’Egitto, dove costruì una salda amicizia con Hasan al-Banna, teorico e fondatore dell’organizzazione terroristica dei Fratelli Musulmani, al-Ḥussayni fu fra i sostenitori della guerra del 1948 contro il nuovo Stato di Israele. In quegli anni, per la comunanza di vedute, mise sotto la sua ala protettiva un suo nipote, Yasser Arafat, che gli successe divenendo protagonista indiscusso della scena mediorientale, ma anche uno degli uomini più ricchi e corrotti del mondo, fino alla sua morte misteriosa avvenuta nel 2004.
Al-Hussayni si distinse per la diffusione delle idee antisemitiche attingendo sopratutto dalla letteratura occidentale come I protocolli dei saggi di Sion che è ancor oggi il libro più letto in lingua araba.
Arafat, diversamente da, era un laico. Partecipava alle preghiere del venerdì più per convenienza che per convinzione, raramente citava il Corano e fu il pioniere di una nuova forma di governo la cui organizzazione coincideva più con quella di un’associazione a delinquere di stampo mafioso che di un’autorità politica eletta e condivisa. Le sue azioni terroristiche si sono svolte soprattutto all’estero perché cercava il massimo della visibilità nei mass-media occidentali e per ricattare Stati e organizzazioni internazionali per ricevere denaro in cambio di tranquillità.
Secondo un report del National Criminal Intelligence Service del 2002, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina è stata “la più ricca di tutte le organizzazioni terroristiche”, con 8-10 miliardi di dollari in attività e un reddito annuo di 1,5-2 miliardi di dollari da “donazioni, estorsioni, traffici illegali di armi, traffico di stupefacenti, riciclaggio di denaro sporco, frodi, sfruttamento della prostituzione, eccetera”. Il Telegraph ha riferito nel 1999 che l’Olp aveva almeno 5 miliardi di sterline sui conti a essa riconducibili. Va ricordato che anche l’Italia ha sempre versato un’importante quota annua prima all’Olp e poi a Hamas.
Comunque sia, attraverso pressioni internazionali nel 1993, il presidente dell’Olp Arafat ha politicamente riconosciuto lo Stato di Israele con una lettera ufficiale all’allora primo ministro Yitzhak Rabin come conseguenza degli Accordi di Oslo che portarono alla nascita dell’Autorità nazionale palestinese che a tutt’oggi non ha ancora eliminato dal suo statuto l’articolo che auspica l’eliminazione dello Stato d’Israele.
In risposta alla lettera di Arafat, Israele pur di avere una controparte con la quale trattare per arrivare alla pace, ha comunque riconosciuto l’Olp come il rappresentante del popolo palestinese.
Arafat è stato il capo indiscusso dei palestinesi per trent’anni. La sua posizione di oligarca laico, di padre-padrone dell’Olp e poi dell’Anp che trattava con chiunque e senza preclusioni e che fosse privo di una visione religiosa, non era molto ben vista dalla gran parte del mondo musulmano.
Hamas, acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, Movimento islamico di resistenza (ovvero, entusiasmo, zelo, spirito combattente), fece la sua prima apparizione con un volantino che accusava i servizi segreti israeliani di minare la fibra morale dei giovani palestinesi per poterli reclutare come collaborazionisti. In altre parole, accusava l’Olp di permettere che i giovani palestinesi di integrarsi e “occidentalizzarsi”, divenendo laici o atei o comunque si allontanandosi dalle moschee e dall’islam. Contro questa deriva “filo-occidentale”, l’articolo 1 dello statuto di Hamas, redatto nel 1988, recitava: “Si è ritrovata in un tempo in cui l’islam è scomparso dalla vita. Così le regole sono state infrante, le idee e i concetti vilipesi, i valori modificati e il popolo del male ha assunto il controllo, l’oppressione e il buio hanno prevalso”.
Hamas è stata fondata nel 1987 dallo sceicco Ahmad Yassin, carismatico leader paraplegico dei Fratelli musulmani palestinesi, in opposizione all’Olp, per offrire un’alternativa islamica alla lotta contro Israele. Senza mai citarlo, le sue idee si ricollegano all’ideologia di al-Hussayni: non fa alcuna differenza tra antisionismo e antisemitismo, sostiene che gli ebrei, nel VII secolo, al tempo di Maometto, rifiutarono di convertirsi all’islam e pertanto sono nemici da sterminare. Riprende, inoltre, il tema, caro ad Al- Hussayni, della “terra promessa” e cioè che la Palestina era destinata (da Allah?) ai palestinesi e gli ebrei l’avrebbero “rubata” ai legittimi destinatari.
Il suo programma fu una chiamata alla dawah (ovvero la chiamata a divenire musulmani migliori), che altro non era che l’esortazione a rinunciare alla cultura laica e agli stili di vita occidentali per ritornare all’osservanza religiosa, alla preghiera, al digiuno, all’abito islamico, ai valori morali e sociali dell’islam al fine di ricreare una vera società musulmana capace di essere di nuovo forte e potente per lanciare un jihad vittorioso per liberare la Palestina dal controllo degli Ebrei e contro i costumi dell’Occidente che inquinano la ummah.
Un programma che si allineava a quello dell’ayatollah Ruhollah Khomeini che aveva trasformato l’islam in un partito politico transnazionale di lotta contro l’Occidente (“l’islam o è politica o non è nulla”, è tra le sue più significative affermazioni). Questa nuova interpretazione dell’islam riportava il jihad contro l’Europa e l’America e trasformava i palestinesi in vittime da difendere dal capitalismo corrotto e rapace degli americani e degli ebrei.
Per lo sceicco Yassin la lotta contro gli israeliani era solo un primo tassello della grande battaglia, del jihad, che tutti i musulmani avrebbero dovuto intraprendere per purificarsi.
Al di là delle definizioni Hamas è, per sua stessa ammissione, un’organizzazione antisemita, antidemocratica, fondamentalista, islamista ed elitaria. In altre parole, si tratta di un gruppo armato che decide a prescindere dal consenso o meno. In questo si ricollega al pensiero di al-Hussayni. Questa continuità dovrebbe spingere i palestinesi a ripensare alla loro storia e come uscire da un incubo che si ripete ciclicamente e in forme sempre più drammatiche. I palestinesi continuano ad addebitare la loro condizione marginale agli ebrei o all’Occidente non rendendosi conto che, come nella gran parte del mondo musulmano, sono i rispettivi governi a deterdaminare condizioni di povertà e marginalità.