Il ministro degli Affari europei si è messo al lavoro come uno sgobbone, sicuro che prima o poi avrebbe contribuito alla quadratura del cerchio: preparare il terreno per la cooptazione di Meloni in Europa. Per lui la prospettiva di entrare nella commissione esecutiva di Bruxelles
La strategia dell’attenzione di Giorgia Meloni nei confronti dell’Europa ha un nome e cognome: Raffaele Fitto. Non ci fosse stato l’ex presidente della Regione Puglia, prima nel parlamento di Strasburgo e successivamente nel governo di Roma, chissà se le relazioni della destra italiana con le più autorevoli cancellerie del Vecchio Continente avrebbero perforato il muro dell’incomunicabilità e della diffidenza reciproche. Insomma, molto probabilmente avrebbe prevalso il modello Orban, del sovranismo tout court, o qualcosa di analogo o equipollente.
Da ex democristiano abituato a mediare, a dispetto di un carattere tutt’altro che docile, l’attuale ministro per gli Affari europei, per le politiche di coesione, per il Pnrr e per il Sud, ha svolto con estrema meticolosità il compito di ambasciatore a Strasburgo, a Bruxelles (e altrove) che gli aveva assegnato Giorgia Meloni in tempi non sospetti, quando la prospettiva di un approdo della leader di Fratelli d’Italia a Palazzo Chigi era ritenuta più inverosimile di una riappacificazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi.
In fondo, qual era la missione di Fitto se non rassicurare i moderati dei Paesi europei che la Meloni non era come Marine Le Pen, che l’evoluzione della destra italiana mirava alla formazione di un partito conservatore in linea con la tradizione culturale conservatrice di Parigi, Washington, Roma, Londra e Berlino, e che chi associava la Meloni al gruppo dei super-scettici di Visegrad aveva sbagliato bersaglio?
Il gruppo europarlamentare dei Conservatori e Riformisti rappresentava lo strumento, il contenitore politico a disposizione di Fitto. Il Pnrr costituiva invece il contenuto su cui misurare effettivamente la reale volontà della titolare di Palazzo Chigi di non procedere a strappi, a rotture, con l’euro-commissione di Bruxelles, ma semmai di trattare, di negoziare senza la pretesa di volere la luna nel pozzo. Alla fine il compromesso è stato siglato.
Gli euro-commissari hanno accettato la revisione del Piano italiano. Certo, resta il nodo dei progetti esclusi. Resta l’interrogativo sulla capacità di attuazione di iniziative in una nazione afflitta da un atavico nonsipuotismo burocratico. Ma Fitto è il primo a sapere che non si può avere tutto e sùbito e che resta ancora molto da fare per dissipare le ombre che accompagnano il rapporto tra Italia e Europa.
Il prossimo test vedrà in campo il ministro Giancarlo Giorgetti, non Fitto, e riguarderà il Mes, finora scartato dall’esecutivo del Belpaese, ma c’è da scommettere che un compromesso più o meno storico sarà raggiunto pure in questo caso e che, appunto, il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cosiddetto Fondo salva-Stati, sarà ratificato anche a Roma.
Il che non significa che il Mes sarà adottato in automatico, anche se il nostro elevato debito pubblico desta più preoccupazione oltre confine che al di qua delle Alpi.
Non era scontato che Fitto ottenesse il via libera della Commissione europea alle modifiche del Piano nazionale di ripresa e resilienza: altri 21 miliardi di euro in arrivo, come nuova rata di una somma complessiva che ne prevede 194,4.
Anche perché Fitto si trovava sotto il fuoco incrociato di numerosi cecchini. A Bruxelles e nel resto d’Europa conoscono le debolezze della Penisola, le cui bellezze artistiche hanno stregato il tedesco Johan Wolfgang von Goethe (1749-1832) e il francese Marie-Henri Beyle, meglio noto come Stendhal (1783-1842), ma i cui conti pubblici non convincono il ministro delle finanze germanico Christian Lindner e il commissario europeo per il commercio, il lettore Valdis Dombrovskis.
E, poi, si sa, la capacità di spesa di Roma, delle Regioni e degli altri enti pubblici italici è quella che è. E proprio nei capoluoghi regionali si trovavano e tuttora si trovano i più tenaci tiratori anti-Fitto, quelli che non perdonano al ministro la determinazione a voler accentrare gli interventi, non soltanto nell’ambito del Pnrr, ma anche nelle decisioni collegate alla Zes (Zona economica speciale) del Mezzogiorno.
Anche il collega Matteo Salvini non può essere annoverato tra i sostenitori di Fitto: uno perché il protagonismo fittiano finisce inevitabilmente per collidere con il ruolo ministeriale del Capitano leghista in materia infrastrutturale; due, perché il dirigismo centrale fittiano rappresenta, indirettamente, una sconfessione del regionalismo spinto di marca lombardo-veneta. Il Fitto ministro è l’espressione di una filosofia antitetica al principio dell’autonomia differenziata cara a Roberto Calderoli e a Luca Zaia.
Di sicuro ha contribuito all’ok europeo al Pnrr la stessa biografia politica di Fitto: nato democristiano e rimasto democristiano. Suo padre Salvatore era di casa nei centri decisionali europei. Era il presidente della Regione Puglia quando un terribile incidente stradale, nell’agosto 1988, gli spezzò l’esistenza terrena, a soli 47 anni. Tutti pronosticavano a Salvatore Fitto una prestigiosa carriera nazionale e internazionale.
E tutti gli riconoscevano una sensibilità particolare per le opportunità comunitarie. Proverbiale era la sua ossessione per la stesura di un “Parco Progetti”, da tenere sempre pronto e aggiornabile, in grado di consentire l’accesso a tutti i finanziamenti nazionali e, soprattutto europei, che si fossero palesati per le regioni italiane.
Fitto junior non ha ereditato il carattere gioviale di Fitto senior, ma ne ha ereditato l’agenda politica. A iniziare dalla corsa (coronata dal successo) per guidare la Regione Puglia per finire all’importanza decisiva da entrambi riconosciuta alle istituzioni europee.
E da perfetto democristiano approdato a destra con l’obiettivo di accelerare il revisionismo meloniano in campo europeo, il ministro Fitto si è messo al lavoro come uno sgobbone, sicuro che prima o poi avrebbe contribuito alla quadratura del cerchio: preparare il terreno per la cooptazione della Meloni in Europa senza peraltro indispettire troppo i duri, gli irriducibili della prima ora, quelli che ritengono l’Europa causa di tutti i mali, anziché soluzione di tutti i problemi.
Oggi sono in molti a prevedere per Fitto figlio un traguardo cui, in cuor suo, forse già puntava Fitto padre: diventare commissario in Europa. Le premesse si sono realizzate. I contatti ci sono. La Meloni ne sarebbe ultra-felice, dal momento che le decisioni chiave si dovranno prendere sempre di più in un’Europa federale, non confederale, pena la decadenza dell’intero Vecchio Continente. Ecco, per Fitto ci sono presupposti per preparare la nuova svolta della Meloni: mollare l’idea di un’Europa confederale per abbracciare l’ideale di un’Europa federale.