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Gigi Riva, breve storia di un monumento Nazionale

Rombo di Tuono compie 79 anni. Vita e miracoli di una leggenda del calcio italiano e di un intero Paese che, con suoi 35 gol in maglia azzurra, resta ancora oggi il capocannoniere indiscusso della Nazionale. Il ritratto di Angelo Ciardullo

Come fai a descrivere Gigi Riva? “Se vuoi ascoltare non solo per gioco il passo di mille pensieri”, cantavano gli Stadio trentacinque anni fa, “chiedi chi erano i Beatles”. Ecco, voi invece provate a chiedere chi era Gigi Riva. Chiedetelo a un padre, a uno zio, chi era Luigi Riva da Leggiuno, provincia di Varese. Riva è un raro caso di monumento nazionale in carne e ossa. Uno che, tra cent’anni, dovrebbe finire dritto sul piedistallo occupato da Carlo Felice sulla sommità del viale che porta il suo nome, a Cagliari. Perché Gigi Riva è certamente Sua Sardità, ma non solo.

Un patrimonio inestimabile per la Sardegna, dove decise di fermarsi per tutta la vita dopo aver regalato ai rossoblù il primo storico scudetto, in quel 12 aprile 1970 che fu la vera data dell’Unità d’Italia cent’anni dopo la Breccia di Porta Pia. Ma un patrimonio inestimabile anche per tutto il Paese: con i suoi 35 gol in maglia azzurra, Riva resta ancora oggi il capocannoniere indiscusso della Nazionale. E che capocannoniere: chi se la dimentica la sua rete in tuffo contro la Germania Est a Napoli nel novembre del 69? Chi se lo dimentica il gol del 3-2 inferto alla Germania Ovest nel partido del siglo dello Stadio Azteca di Città del Messico, in quella leggendaria notte del 17 giugno 1970 in cui le tensioni socio-politiche degli incipienti anni di piombo passarono per un momento in secondo piano?

Un sinistro letale, come solo lui sapeva usarlo. Il destro gli serviva “solo per salire sul tram”, come ebbe a dire il suo allenatore Manlio Scopigno detto Il Filosofo, altro personaggio incredibile di un calcio che non esiste più. Un sinistro con cui Riva era capace di scagliare pallonate da 120 chilometri all’ora, e che gli valse il soprannome di Rombo di Tuono coniato dall’aedo della Prima Repubblica del calcio, Giovanni Brera fu Carlo, in un freddo pomeriggio meneghino dell’ottobre 1970.

Il Cagliari arrivava a Milano con il tricolore stampato sul petto: ad accoglierlo, i nerazzurri dell’ex Boninsegna che qualche mese dopo avrebbero strappato lo scudetto ai sardi per cucirlo sulla propria maglia. “Il Cagliari ha subito infilato e umiliato l’Inter a San Siro – scrisse Brera sul Guerin Sportivo il giorno seguente – oltre 70 mila spettatori: se li è meritati Riva, che qui soprannomino Rombo di Tuono”. Un nome da capo indiano, da condottiero”.

Sei giorni dopo, il secondo tragico infortunio della sua carriera: tibia e perone della gamba destra mandati in frantumi da un intervento ai limiti del codice penale del terzino austriaco Norbert Hof, giustamente passato alle cronache sportive come il “boia del Prater”. Bello scherzo di Halloween.

Due gambe sacrificate sull’altare della Patria azzurra. La prima – il perone sinistro – in amichevole contro il Portogallo nel marzo del 1967. La seconda, appunto, contro l’Austria nell’ottobre del ’70. Due infortuni gravissimi con strascichi che si fanno sentire ancora oggi, a mezzo secolo di distanza. E comunque neanche quelle due mazzate riuscirono a fermarlo. Ci riuscì invece un “banale” strappo all’adduttore destro, rimediato il 1° febbraio ’76 mentre inseguiva un “banale” pallone per sottrarlo alle grinfie dello stopper milanista Aldo Bet. Un commiato dolorosissimo, consumato davanti agli occhi increduli della sua gente.

Un commiato solo dal calcio giocato, però. Perché Gigi Riva l’Isola non l’ha mai più lasciata, neanche davanti alla promessa del “miliardo di lire” con cui Giampiero Boniperti lo blandiva a intermittenza per tentare di portarlo alla corte bianconera degli Agnelli. Ha continuato a viverla e amarla, la Sardegna, con tutta la sua proverbiale discrezione, con tutta la sua straordinaria timidezza.

Quella stessa timidezza con cui nel ’71 disse di no a Franco Zeffirelli che lo voleva nel ruolo di San Francesco d’Assisi per il suo Fratello Sole Sorella Luna. Quella stessa timidezza che lo teneva legato con un filo invisibile al suo mito musicale Fabrizio De André che riuscì a incontrare, coronando un sogno, in occasione di una trasferta dei rossoblù a Genova nel settembre del ’69: “Cominciammo con un paio di bicchieri di whisky, sennò nessuno parlava”, racconterà anni dopo. Quella stessa timidezza con la quale oggi,  circondato dall’amore dei figli, delle nipoti e di un popolo intero, si appresta a soffiare 79 candeline. Buon compleanno, Rombo di Tuono. E come si dice in Sardegna: A chent’annos.

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