Provenzano (Pd) su Repubblica chiede “una forza multinazionale militare di interposizione, sotto l’egida delle Nazioni Unite”. Il ministro Tajani spinge in ambito G7. Ma il difficile rapporto tra Israele e il Palazzo di Vetro è un ostacolo
“A Gaza serve una forza multinazionale militare di interposizione, sotto l’egida delle Nazioni Unite”, scrive oggi Giuseppe Provenzano, responsabile Esteri del Partito democratico, sul quotidiano La Repubblica. “E proprio l’Italia può giocare un ruolo fondamentale, forte della sua migliore tradizione diplomatica e della credibilità guadagnata ad esempio nell’ultimo conflitto tra Israele e Libano”, aggiunge. La stessa proposta era stata avanzata dal Partito democratico nel 2014, in occasione dell’Operazione Margine di protezione delle forze armate israeliane a Gaza contro Hamas.
Ancora il governo lavora in questa direzione, in particolare in ambito G7. “Ne abbiamo parlato e continueremo a discuterne”, ha confermato Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, martedì sera al termine della cena con i suoi omologhi del Gruppo dei Sette a Tokyo, in Giappone. Il risultato più immediato da raggiungere è “una de-escalation” nel più breve tempo possibile per poi arrivare alla soluzione dei due Stati. Ma nel frattempo bisognerà consolidare una “fase di transizione” e il compito potrebbe essere affidato ai peacekeeper delle Nazioni Unite, sul modello di quanto avvenuto già in Libano con il contingente di Unifil. Qualunque sia la soluzione, l’obiettivo finale è comunque “la pace”, ha sottolineato Tajani.
Non mancano, però, gli ostacoli a questa proposta. Il principale è rappresentato dalle sempre più ampie distanze tra Israele e le Nazioni Unite.
Torna alla mente il 2006, quando il governo italiano presieduto da Romano Prodi si impegnò per portare al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il potenziamento del contingente militare Unifil in Libano. Il Palazzo di Vetro disse sì. Qualche giorno dopo, intervistato dal settimanale L’Espresso, Massimo D’Alema, allora vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, rispose così a una domanda sulla possibilità di adottare anche a Gaza lo schema utilizzato per affrontare la crisi israelo-libanese: “Dobbiamo procedere per gradi”, fu la risposta. “Se le cose funzioneranno in Libano, gli israeliani potrebbero comprendere che anche altrove una presenza della comunità internazionale è un fattore di garanzia per loro”.
La scorsa settimana Bloomberg aveva rivelato le ipotesi al vaglio degli Stati Uniti per riempire il vuoto di potere che si creerebbe dopo la caduta di Hamas: un controllo temporaneo su Gaza ai Paesi della regione, sostenuti da truppe americane, britanniche, tedesche, francesi e, idealmente, di nazioni arabe come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti; una forza di peacekeeping sul modello della forza multinazionale e del gruppo di osservatori che opera nel Sinai, facendo rispettare le condizioni del trattato di pace del 1979 tra Egitto e Israele; un governo temporaneo della Striscia sotto l’ombrello delle Nazioni Unite. Ma proprio la sfiducia verso il Palazzo di Vetro rende l’ultima soluzione non praticabile per Israele.