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Israele ed Estonia unite dalla guerra mondiale a pezzi. L’analisi di Castiglioni (Iai)

Di Federico Castiglioni

Dopo gli attacchi di Hamas, emerge ora per la prima volta quel filo rosso, finora invisibile, che già collegava i diversi pezzi del puzzle securitario che vede l’Europa al centro. L’analisi di Federico Castiglioni, ricercatore nel programma “Ue, politica e istituzioni” dell’Istituto Affari Internazionali

Nel non troppo lontano 2014, quando la Russia annesse la Crimea e iniziò l’espansione dell’ISIS in Medio Oriente, papa Francesco sostenne che il mondo stava già vivendo una “terza guerra mondiale”, ma che la sua frammentarietà impediva al grande pubblico di vederne i contorni. Per usare un’espressione efficace il pontefice coniò il termine “guerra mondiale a pezzi”. La riflessione di papa Francesco, per quanto non sviluppata, era frutto di un’intuizione che merita un approfondimento. Infatti, se c’è qualcosa che la storia insegna è che una situazione di conflitto generalizzato (o guerra mondiale se si vuole) si viene a creare quando diversi focolai di instabilità si saldano insieme, ossia quando i diversi “pezzi” rappresentati dai conflitti regionali precipitano in una situazione di insicurezza internazionale generalizzata. Accadde secoli fa nell’ormai dimenticata guerra dei sette anni, quando gli scontri coloniali del Settecento in America e India si saldarono con le tensioni latenti nell’Europa centrale. Si ripeté nella Prima guerra mondiale, quando all’instabilità politica europea si sommò quella dell’area mediterranea e mediorientale. Il fenomeno venne infine replicato su scala ancora maggiore durante la Seconda guerra mondiale nel momento in cui l’espansionismo giapponese e sovietico incontrò il revanchismo tedesco. Oggi stiamo assistendo a una crisi sistemica delle relazioni internazionali post Guerra fredda, dovuta anche (ma non solo) a un quadro in mutamento dei rapporti di forza tra le grandi potenze.

La Cina, la cui influenza è ormai percepita come consolidata a livello globale, viene sempre più spesso coinvolta direttamente o indirettamente in crisi molto distanti da lei, come la guerra in Ucraina o la stabilità in Medio Oriente. La proiezione globale della politica estera cinese, riconosciuta anche da noi, si traduce in una crescente sicurezza e in una ritrovata assertività a livello regionale. Al contempo, Stati prima poco influenti come l’India negli ultimi dodici anni hanno raddoppiato il loro prodotto interno lordo (quello italiano nello stesso periodo è leggermente diminuito, per fare un paragone) e ora reclamano un ruolo crescente nella gestione dell’economia e politica globale. Gli Stati Uniti, infine, per quanto sempre considerati l’attore principe del panorama internazionale, stanno vivendo un periodo di disillusione a seguito delle guerre in Afghanistan e Iraq, unito a una crisi di legittimità interna con pochi precedenti nella loro storia recente. Il risultato è il ripiegamento della politica estera americana sul gruppo “transatlantico” del G5 (Stati Uniti-Regno Unito-Francia-Germania-Italia) e un’oggettiva difficoltà ad allineare gli altri attori.

La fine della guerra fredda aveva illuso tutti, e in particolare gli europei, che fosse possibile riaccogliere la Russia nella famiglia europea. Allo stesso modo, gli accordi con l’Iran del 2015, gli accordi di Abramo nel 2020 e i recenti abboccamenti israelo-sauditi avevano fatto sperare in un cambio di passo nell’annosa questione mediorientale. Entrambe queste illusioni si sono rivelate tali e oggi ne paghiamo il prezzo in termine di instabilità. Alcuni fronti di questa instabilità sono evidenti e drammatici, come la guerra in Ucraina. Altri sono latenti e poco riconosciuti, come l’Africa occidentale, ma possono rivelarsi altamente destabilizzanti. Altri ancora sono semplicemente “sospesi” ma, se dovessero scatenarsi, potrebbero causare un effetto domino rovinoso. E mentre gli occhi di tutti vanno da Gaza a Teheran, la mente degli esperti, sentendo il Presidente Biden che promette aiuti sia a Tel Aviv sia a Kiev, vola a Taiwan, dove la spada di Damocle cinese incombe e potrebbe essere incentivata da un’eccessiva distrazione occidentale.

Per il benessere di tutti, i diversi fronti di instabilità “sospesi” – di cui Taiwan rappresenta il classico punto di rottura del domino – non devono fondersi tra loro, pena la de-regionalizzazione dei conflitti e la creazione di connessioni capaci di saldare la “guerra mondiale a pezzi” in un mostro ben conosciuto. L’Europa finora è stata di ben poca utilità agli Stati Uniti nell’affrontare questa transizione dei rapporti internazionali con un contributo pratico o di idee. Le spese per la Difesa degli Stati membri dell’Unione europea non stanno aumentando quanto sarebbe minimamente necessario per influire sulla nostra capacità di deterrenza e comunque la nostra volontà politica di usare tale deterrenza, come detto recentemente dal ministro della difesa francese Sébastien Lecornu, è ai minimi storici. Il desiderio di pace e stabilità europea si scontra, d’altra parte, con delle economie stagnanti severamente indebolite dalla crisi energetica e con un quadro Ue ancora frammentato proprio in politica estera (basta osservare il cordiale incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro ungherese Viktor Orbán la settimana scorsa per rendersene conto). Il risultato è che l’Europa, da potenziale forza stabilizzatrice, diventa un attore inerte, attorno al quale si moltiplicano i pericoli e che si illude di rimanerne per sempre estranea.

Dopo gli attacchi di Hamas, emerge ora per la prima volta quel filo rosso, finora invisibile, che già collegava i diversi pezzi del puzzle securitario che vede l’Europa al centro. Alcune priorità strategiche del continente sono indiscutibili. È essenziale, per esempio, che il conflitto ucraino non si allarghi ai Paesi baltici o alla Bielorussia, magari traendo spunto da una debolezza percepita da parte della Nato, impegnata con le sue forze altrove. Allo stesso modo, è vitale per noi che il conflitto a Gaza rimanga circoscritto a livello locale, senza portare con sé l’Iran e il Libano e creare così una seconda “cortina di ferro” tra l’Occidente e l’Oriente che passi da Tallinn a Tel Aviv. È infine essenziale che non si aprano nuovi fronti di instabilità in Oriente perché questa sarebbe la certificazione della fine di ogni equilibrio internazionale e l’ingresso in un territorio ignoto per il quale noi europei siamo totalmente impreparati.

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