“Mamma, ho ammazzato dieci ebrei con le mie mani”, “Quei cani hanno paura”, “Voglio fare un selfie con te” detto a un ostaggio sul pickup. Quarantatré minuti e 138 morti, neppure un decimo del totale del massacro del 7 ottobre. Un pubblico (ristretto) sconvolto
Il papà scappa con i suoi due figli. Il solo intimo che indossano fotografa la sorpresa del momento. Cerca rifugio per loro. Lo trova. Trova il rifugio antiaereo fuori dalla loro abitazione nel kibbutz. Una granata fa in tempo a raggiungerlo prima che la porta si chiuda. Lo lascia senza vita. Priverà uno dei figli della vista da un occhio. Lui e il fratello vengono trascinati in casa. I loro corpi ricoperti del sangue del papà. Piangono. Disperati. Chiamano il papà. “Perché sono vivo?”, grida in lacrime, grida strazianti, uno di loro dicendo di non vedere da un occhio. Sono sul divano in cucina. A pochi centimetri da loro, uno dei terroristi di Hamas apre il frigorifero. Rovista un po’. E alla fine, a muso, tracanna della Coca Cola. Qualche minuto più tardi arriverà la mamma. E gli operatori della sicurezza faranno fatica a trascinarla al riparo quando scoppierà in lacrime vedendo il corpo senza vita del marito.
In molti momenti durante quei lunghi 43 minuti proiettati in una sala dell’ambasciata di Israele a Roma noi giornalisti, una dozzina, ci siamo guardati più volte negli occhi. Sconvolti. Meglio che guardare certe immagini e ascoltare certi audio del massacro del 7 ottobre. Alcuni di questi materiali erano già circolati online, ma in forme tagliate o oscurate. Neanche l’ambasciatore Alon Bar riesce a guardare quelle immagini. Gioca con la penna tra le sue mani. Guarda nel vuoto. Sembra cerchi di pensare ad altro. Sicuramente non sarebbe il solo.
Perché non si può rimanere indifferenti. Non davanti a quelle immagini, buona parte delle quali prodotte proprio dai terroristi di Hamas con bodycam e smartphone per diffondere e celebrare le proprie gesta ai parenti, agli amici ma anche e soprattutto al mondo. Non davanti a certe parole: “Spara”, “Brucialo”, “Prendilo e appendilo in piazza Al-Alam”, “Mamma, ho ammazzato dieci ebrei con le mie mani”, “Quei cani hanno paura”, “Voglio fare un selfie con te” detto a un moribondo ostaggio caricato sul cassone del pickup. E soltanto alla fine si scopre di aver visto 138 morti su quello schermo. In 43 minuti. E non è neppure un decimo del totale delle vittime dell’attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso.
Perché mostrare questo video? Risponde il governo israeliano che è per dire, ribadire e se serve anche convincere che ciò che non doveva capitare “mai più” invece è accaduto di nuovo, che degli ebrei fossero uccisi soltanto perché ebrei. Per mostrare ciò che è Hamas, spiegato bene da Hamas, e perché va estirpata per assicurare un futuro migliore a israeliani e palestinesi.
Perché mostrarlo a un pubblico ristretto anche se potenzialmente influente? Per rispetto delle vittime e delle famiglie, è la risposta di Israele. Ma anche per non dare l’impressione di essere alla ricerca di coperture per le morti causate dalla reazione di Israele.
Un dilemma che assilla anche chi guarda e poi scrive.