Pur mantenendo il tradizionale approccio centrato sui diritti umani, una lettura in chiave economica aggiunge nuove ed utili sfumature: la parità di genere paga, la violenza costa. L’analisi di Carmine Soprano, economista, docente accademico, e consulente di organizzazioni internazionali
La violenza costa, la parità paga. In occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, proviamo a integrare una prospettiva economica al tradizionale e pertinentissimo approccio alla parità di genere come diritto umano. Perché i fenomeni multidimensionali si prestano ad un’analisi a più livelli, purché rigorosa. Vediamone quindi i numeri, e poi alcune possibili soluzioni di policy.
La parità di genere è economia intelligente: perseguire l’uguaglianza (e la diversità più in generale) si traduce in chiari benefici economici quali maggiore produttività, innovatività, e ricchezza. Secondo un rapporto McKinsey del 2015, fino a 28 mila miliardi di dollari (+26%) si sarebbero potuti aggiungere al Pil globale (scenario più roseo) colmando entro il 2025 i vari gaps di genere – stime un po’ datate e pre-pandemia, ma sufficienti a dare un’idea dell’opportunità economica associata alla parità di genere. Un’altra indagine sempre McKinsey aveva evidenziato come le aziende più attente a diversità e inclusione (in termini di genere ma anche etnici e culturali) si dimostrano più dinamiche, più profittevoli, e più resilienti alle crisi.
La faccenda riguarda anche e soprattutto il nostro Paese: già nel 2013 Bankitalia aveva stimato che, con occupazione femminile al 60% (come da Strategia di Lisbona Ue 2010, ndr), si sarebbero potuti aggiungere fino a 7 punti di Pil in Italia. Stime confermate da una più recente indagine Bain & Company, secondo cui la parità occupazionale varrebbe tra i 50 e 150 miliardi. In sintesi, il business case dell’uguaglianza di genere è chiarissimo.
Le disuguaglianze di genere però persistono: in Italia le donne lavorano e guadagnano meno, si accollano gran parte del carico di cura, e sono meno rappresentate in politica e in azienda – la parità resta un’opportunità economica mancata. Da un lato, il gap educativo è colmato per l’istruzione secondaria e invertito nella terziaria per le nuove generazioni: il 35% delle donne in età 25-34 aveva un titolo accademico al 2020, contro il 23% dei coetanei di sesso maschile – persiste invece il gap nelle discipline scientifiche cosiddetto Stem (Science, Technology, Engeneering, and Mathematics, tradizionalmente associate a retribuzioni più alte), dove solo 4 laureate su 10 in media sono donne. D’altro canto, persistono ampie disuguaglianze di genere relative a partecipazione alla forza lavoro (41% donne, 58.4% uomini), stipendi da lavoro salariato (circa 8 mila euro di differenza in media), tempo speso in lavoro domestico non retribuito (quasi 2.5 volte maggiore per le donne, pari a circa 3 ore quotidiane), e rappresentanza sia in Parlamento (1/3 donne vs 2/3 uomini) che nel top management delle imprese (1 ceo su 10 è donna). Il Global gender gap report 2023 relega l’Italia in 79esima posizione su 146 paesi.
In questo contesto si innesta la violenza di genere nelle sue troppe forme, e con i suoi tanti costi: assistenza alle vittime, calo della produttività, perdita di Pil. In Italia in media circa una donna su tre ha subito qualche forma di violenza fisica, verbale, emotiva, e/o economica. E quasi una donna ogni tre giorni è vittima di femminicidio: quello barbaro che ha visto coinvolta Giulia Cecchettin era il numero 102 del 2023, in linea con le amare statistiche degli ultimi anni.
Se i femminicidi restano stabili, crescono le violenze: nel periodo 2013-2022 sono circa raddoppiate le denunce per maltrattamenti familiari (ex art. 572 codice penale), e aumentate di almeno 40% quelle per atti persecutori e violenze sessuali (dati Viminale). Per tali reati la stragrande maggioranza delle vittime e’ di sesso femminile, sebbene gli aumenti riflettono probabilmente anche una maggiore tendenza a denunciare.
Chiaramente ogni forma di violenza di genere costituisce un crimine efferato nonché una violazione dei diritti umani, come sancito da varie convenzioni internazionali e ripetuto a più riprese in sedi Onu. Meno note, ma non meno importanti, sono pero’ anche le conseguenze economiche. L’evidenza disponibile suggerisce che i costi annui in termini di assistenza (naturalmente doverosa) alle vittime, calo di produttivita’ sul lavoro, riduzione di output economico, ergo in ultima istanza perdita di Pil, possono essere ingenti: la violenza di genere è costata 366 miliardi di euro nei paesi UE nel solo 2021 secondo alcune stime, di cui circa 50 miliardi in Italia. Pur mantenendo il tradizionale approccio centrato sui diritti umani, la lettura in chiave economica aggiunge quindi nuove ed utili sfumature: la parità di genere paga, la violenza costa.
Quali soluzioni di policy per arginare la violenza (e ridurne i costi), liberando appieno il potenziale economico della parità di genere? Vengono in mente tre fronti, tra gli altri:
- Innanzitutto, incentivi strutturali per promuovere istruzione e occupazione femminile e per constrastare il gap salariale: borse di studio e alloggi studenteschi con quote di genere, partenariati università-aziende per tirocini Stem, sgravi fiscali a lungo termine per le imprese che assumono donne (non solo quelle con almeno tre figli, come da bozza legge di bilancio 2024), e reporting obbligatorio sul pay gap per aziende medie e grandi (da 50 dipendenti);
- Altresì, una radicale rivisitazione delle politiche della famiglia: congedi parentali con più equa redistribuzione del carico di cura (ancora troppo sbilanciato sulla donna), meglio ancora se allocati congiuntamente secondo il modello svedese (240 giorni per genitore ovvero 480 in totale, distribuibili all’interno della coppia); e un piano serio di lungo termine per asili nido pubblici (i cui investimenti Pnrr sono in ampio ritardo), in linea col nuovo target Ue del 45% entro il 2030;
- Infine, un contrasto della violenza di genere a partire da misure di prevenzione oltre che di mitigazione: educazione affettiva nelle scuole di ogni grado (compresi focus groups con adolescenti e giovani adulti per riflettere sui nuovi modelli maschili), sistemi premiali per campioni uomini di genere sul posto di lavoro, e campagne di sensibilizzazione con annessa divulgazione di dati e informazioni su stereotipi e pregiudizi.
Contrastare la violenza e realizzare la parità di genere sono imperativi morali ma anche esempi di buona politica economica – se non ora, quando?