Arabia Saudita e Russia confermano che il taglio alla produzione durerà fino a fine anno, nonostante il conflitto tra Israele e Hamas e il rischio di shock energetico. Gli introiti del greggio sono una questione esistenziale per i due Paesi, che stanno navigando tra indebolimento della domanda e transizione energetica. E la sfida sarà difendere le loro ragioni nel Global South
Lunedì all’insegna del rialzo per i prezzi globali del petrolio, a seguito dell’annuncio domenicale di Arabia Saudita e Russia, i primi due esportatori al mondo e pesi massimi all’interno dell’Opec+, di continuare con la strategia dei tagli volontari alla propria produzione fino alla fine di quest’anno. I futures dell’indice Brent hanno iniziato la loro scalata oltrepassando gli 86 dollari al barile, invertendo il trend ribassista che aveva fatto seguito al picco di oltre 92 dollari – registrato poco dopo all’attacco terroristico che ha innescato la guerra in corso tra Israele e Hamas.
È proprio lo sfondo della crisi in Medioriente a preoccupare gli analisti. Nonostante un rialzo dopo l’estate, il prezzo del greggio si era normalizzato rispetto allo scossone dell’invasione russa dell’Ucraina, che nel 2022 spedì il prezzo del Brent oltre i 120 dollari al barile e provocò una crisi energetica diffusa. Finora lo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas non ha impattato in maniera esorbitante il prezzo del petrolio, che ha segnato il picco del 2023 due settimana prima dell’attacco jihadista del 7 ottobre. Ma il rischio di un allargamento del conflitto in Medioriente, area fondamentale per il commercio del greggio, rimane in sottotraccia. E questo implica la possibilità di un altro shock energetico.
Stando così le cose, Riyadh e Mosca non hanno voluto concedere una boccata d’ossigeno ai mercati allentando la stretta auto-imposta lo scorso settembre – di un milione di barili al giorno per la prima, 300.000 per la seconda – che aveva innescato il rally che ha portato al picco annuale di poche settimane fa. Entrambe le capitali hanno detto che riesamineranno i volumi di produzione e considereranno se estendere il taglio, aumentare la produzione o addirittura ridurla ulteriormente a dicembre.
Sembra evidente che i due Paesi vogliano evitare che il prezzo del greggio torni ai livelli pre-invasione dell’Ucraina, che poi si sono registrati ancora nel corso dell’estate 2023. È una questione esistenziale per la Russia, che deve contrastare la crisi del rublo e finanziare la sua guerra d’aggressione (gli idrocarburi rappresentano il 40% degli introiti del Cremlino e le sanzioni occidentali hanno creato una voragine nei conti di Vladimir Putin). Intanto l’Arabia Saudita lavora per rendersi a prova di futuro e meno dipendente dal commercio di combustibili fossili con l’ambizioso progetto Vision 2030; ma deve finanziarlo con i proventi dell’oro nero.
La questione interseca quella della transizione ecologica e delle proiezioni contrastanti tra Opec+ e Agenzia internazionale per l’energia. Forti del fatto che l’80% del sistema energetico globale sia alimentato dagli idrocarburi, il cartello di produttori di petrolio e altre realtà del settore sostengono che serva investire nelle fonti fossili da qui al 2045 per assicurare la disponibilità di approvvigionamenti, dunque la sicurezza energetica, ed evitare crisi dei prezzi (che effettivamente hanno risentito del declino negli investimenti). Ma in un rapporto uscito a fine ottobre, l’Aie ha contestato questa narrativa, prevedendo il picco della domanda degli idrocarburi al 2030 e registrando un aumento “inarrestabile” delle rinnovabili che secondo l’ente abbasserà la dipendenza globale dalle fonti fossili al 73% entro fine decennio.
È pur vero che come registra Goldman Sachs non si è ancora verificato nessun calo delle scorte; anzi, la produzione di petrolio dovrebbe essere in surplus nel primo trimestre del 2024. A ogni modo, che si dia più credito a una parte o all’altra, è comunque facile immaginare che in tempi di transizione i leader dell’Opec+ vogliano trarre quanto più possibile dalle loro operazioni di estrazione. Anche perché il rallentamento dell’economia cinese (dunque della domanda di petrolio) sta portando a una diminuzione della produzione nelle raffinerie cinesi, e questo potrebbe erodere i margini di profitto in cui sperano i produttori di petrolio, hanno spiegato degli analisti a Reuters.
Allargando il campo, la sfida dell’Opec+ è bilanciare la loro politica dei prezzi con i bisogni di quella parte di mondo – specialmente i Paesi del Global South – che più dipendono dagli idrocarburi per crescere e prosperare. Non è solo un tema di relazioni politiche, campo in cui la Russia deve sostenere la sua narrativa antioccidentale e proporsi come campione del progresso dei Paesi del Global South; più diventano i combustibili fossili, più si avvalora la prospettiva di ricorrere alle alternative, dalle fonti rinnovabili e al nucleare, che garantiscono un maggior grado di sovranità energetica e un’esposizione inferiore alle fluttuazioni dei prezzi.