L’ultimo caso relativo all’export militare è quello sollevato dal leader del M5S sulle esportazioni italiane verso Israele, sospesa dall’Uama per atto dovuto conforme alle norme della legge 185 il 7 ottobre (giorno d’inizio del conflitto contro Hamas). Emerge, ancora una volta, come la politica funga da “comparsa” sulla delicata materia dell’esportazione di armi. Il punto di Filippo Del Monte, Geopolitica.info
Con una proposta presentata lo scorso 11 agosto dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, il governo sta provando ad apportare alcune modifiche alla Legge 185/90, quella che regola le esportazioni di armamenti. L’obiettivo è duplice: razionalizzare la normativa in materia e reintrodurre il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd), abolito nel 1993.
Il Disegno di Legge n. 855 è attualmente in discussione al Senato, ma ha generato già una levata di scudi da parte di numerose organizzazioni di stampo pacifista, che hanno accusato l’esecutivo di voler rendere più facile l’export di armi e sistemi d’arma italiani nel mondo.
In realtà questa è una argomentazione capziosa, anche perché in Italia e, più in generale, in Europa, l’esportazione di armamenti è soggetto a normative stringenti, tali da impedire qualunque “traffico illecito” o favorire lo scoppio di nuovi conflitti e/o la recrudescenza di quelli già in atto.
In particolare, per quanto concerne la normativa italiana, i divieti all’esportazione di materiali d’armamento si applicano quando mancano adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei prodotti per la difesa, ovvero sussistono elementi per ritenere che il destinatario previsto utilizzi gli stessi prodotti a fini di aggressione contro un altro Paese; quando il Paese destinatario è in stato di conflitto armato, in contrasto con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite; nel caso sia stato dichiarato verso un Paese l’embargo totale o parziale delle forniture di armi da parte di organizzazioni internazionali cui l’Italia aderisce; quando il governo di quel Paese sia responsabile di gravi violazioni dei diritti umani accertate da organizzazioni internazionali cui l’Italia aderisce; quando in un Paese si destinino a bilancio militare risorse eccedenti le proprie esigenze di difesa.
L’impianto della Legge 185/90 è stato modificato nel 2012, con il recepimento della direttiva europea 2010/80 Ue, che ha introdotto il principio generale in base al quale il trasferimento di prodotti per la difesa fra Stati membri deve essere subordinato al rilascio di un’autorizzazione preventiva dello Stato membro da cui partono i prodotti, salvo i casi di fornitori o destinatari facenti parte di un organismo governativo o delle forze armate, di forniture effettuate dall’Unione europea, dalla Nato, dalla Iaea o da altre organizzazioni intergovernative per lo svolgimento dei propri compiti o di programmi di cooperazione tra Stati membri in materia di armamenti – o ancora di fornitura di aiuti umanitari per fronteggiare catastrofi -, autorizzazione accordata sotto forma di una licenza di trasferimento.
Il testo del Disegno di legge n. 855 è facilmente consultabile e dalla relazione generale che lo accompagna si può facilmente notare come alla base del provvedimento vi sia la necessità di snellire le procedure contrattuali e burocratiche, al netto di un rafforzamento dei controlli e del perimetro d’azione del decisore politico su esportazione e importazione di armamenti.
Se, infatti, la proposta del governo Meloni amplia il termine per la presentazione della documentazione comprovante la conclusione dell’operazione di trasferimento, di pari passo inasprisce le sanzioni amministrative per la mancata produzione della documentazione richiesta.
La proposta di Tajani, presentata di concerto con i colleghi ministri della Difesa, di Economia e finanze, Interno e Imprese e Made in Italy, è in linea con le esigenze attuali tanto del comparto industriale dell’aerospazio-difesa, quanto della sicurezza nazionale.
La Aerospace and defence industries association of Europe (Asd) in un suo recente documento, intitolato The Importance of Exports for the European Defence Industry, ha spiegato come il mercato AD&S europeo sia oggi frammentato e soggetto a limitazioni di budget e cicli di approvvigionamento non sincronizzati, oltreché a rischi sull’intera catena del valore, soggetta alle ricadute dello scontro politico-diplomatico sui materiali critici. Inoltre, l’industria della difesa europea non riesce a competere con Paesi come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.
Per esempio, nel 2020, a parità di potere d’acquisto, i 27 Paesi membri dell’Ue hanno speso collettivamente circa 216 miliardi di euro per la difesa, contro i 766 miliardi di dollari degli Stati Uniti, i 178 miliardi di dollari della Russia e i 332 miliardi di dollari della Cina.
Si deve, inoltre, considerare come la quota di mercato dei produttori europei di armamenti in Europa sia inferiore alle aspettative, con molti Paesi del vecchio continente che preferiscono affidarsi ad appaltatori stranieri, principalmente statunitensi, per l’acquisto di velivoli dual use, elicotteri da trasporto pesante e velivoli unmanned. Il mercato europeo e quello dei Paesi Nato da soli non bastano a coprire i costi del comparto industriale di settore. Ecco perché l’Asd sta mettendo in evidenza quanto sia importante diversificare e favorire le esportazioni di armamenti creati da industrie europee con tecnologia europea.
Per quanto concerne l’Italia, l’aerospazio-difesa ha un fatturato di circa 17 miliardi di euro, e il valore della produzione, incluso l’indotto, è di circa quaranta miliardi di euro. Sono i numeri presentati nel febbraio scorso in audizione alla commissione Esteri e Difesa di Camera e Senato da Giuseppe Cossiga, presidente della Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza (Aiad). Anche l’Aiad, sulla stessa linea d’onda dell’Asd, ha richiesto di rivedere la Legge 185/90 non per stravolgerne il contenuto, ma per garantire ai processi di esportazione di armamenti una più chiara impronta governativa sulle decisioni da prendere.
Il tentativo di reintrodurre il Cisd – le cui funzioni sono oggi demandate a un comitato tecnico istituito presso la Farnesina e denominato Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento-Uama – risponde all’esigenza di dare un chiaro indirizzo di politica estera anche ad una materia complessa come quella dell’export di armi. Nel corso degli anni non sono stati rari i casi in cui dalla Uama sono passate decisioni di carattere squisitamente politico, che hanno influenzato la postura geopolitica ed economico-industriale del Paese all’estero.
L’ultimo caso è quello relativo all’export militare italiano verso Israele, con ogni operazione sospesa su ordine della Uama – nel rispetto della normativa vigente e come atto dovuto – a partire dallo scorso 7 ottobre, giorno d’inizio del conflitto contro Hamas. Fino a quel giorno, ha spiegato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, le licenze approvate, per un valore di 9,9 miliardi di euro erano state 21, così come nel 2019 erano stati 28 i milioni stanziati durante il governo Conte 1 e 21 milioni nel 2020, ai tempi del Conte 2. E ancora, nel 2021 sono stati spesi 12 milioni sulle armi e 9 milioni nel 2022. Con questi numeri il ministro della Difesa ha voluto evidenziare come ogni governo, a prescindere dal colore, faccia “affari” con l’export di armi, sbugiardando la linea “pacifista” – nei fatti esclusivamente antioccidentale – del leader del Movimento 5 Stelle. Nei giorni scorsi Giuseppe Conte aveva violentemente attaccato il governo Meloni, in particolare i ministri Tajani e Crosetto, sull’appoggio fornito ad Israele.
Ma da questi numeri emerge, ancora una volta, come la politica funga da “comparsa” sulla delicata materia dell’esportazione di armi rispetto ai veri attori protagonisti che sono tecnici. Ma se si “deresponsabilizza” il decisore politico su una materia che ha necessariamente implicazioni politiche, è chiaro che sia poi il tecnico a dover decidere, generando inevitabili cortocircuiti.
Questo perché nei processi di promozione del sistema-Paese passa anche la presentazione di prodotti per la difesa sviluppati con know-how nazionale e da aziende italiane che, sia come capofila, sia come parte dell’indotto, rappresentano eccellenze al livello mondiale. Analizzando la serie storica delle esportazioni di armamenti italiani, contenuta nella Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento del 2022, si può notare la crescita delle autorizzazioni alle esportazioni di armi e sistemi e, dunque, anche del fatturato connesso, in Paesi come la Turchia (oggi al primo posto), il Qatar, Singapore, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Kuwait e l’India. Infatti, se la capacità italiana di esportare armi negli Stati Uniti e nei Paesi Ue e Nato può sembrare scontata, è interessante valutare come le direttrici commerciali AD&S italiane si stiano indirizzando verso i Paesi d’interesse del Mediterraneo allargato e di una strategia che lo connette, necessariamente, all’Indo-Pacifico e che, in un certo senso, stiano ricalcando il percorso della costituenda Via del Cotone indo-araba, da contrapporre alla cinese Via della Seta.