Il vero problema legato alla norma anti-ribaltone sembra essere che attratto dalla possibilità di disarcionare un premier diventato scomodo, uno degli alleati di maggioranza potrebbe decidere di innescare una crisi di governo esponendo il capo del governo alla sfiducia delle Camere per poi prenderne il posto. Un potenziale cortocircuito che potrebbe contribuire ad accrescere quella instabilità che il premierato si prefigge se non di debellare, quantomeno di arginare. L’analisi di Angelo Ciardullo
“Qua nessuno è fesso”, sbottava in dialetto napoletano Totò nel film I ladri: una frase, tipica dalla tradizione partenopea, diventata poi patrimonio lessicale di tutta Italia. Oggi però, a mezzo secolo dall’uscita della pellicola di Lucio Fulci, c’è chi inizia a sospettare che non sia proprio così.
Intervenendo dalle colonne del Riformista nel dibattito sulle riforme istituzionali promosse dal governo, il direttore Andrea Ruggieri esprime tutte le proprie perplessità sulla cosiddetta “norma anti-ribaltone”. Quella – per intenderci – che prevede la sostituzione del premier sfiduciato dalle Camere con altro esponente della maggioranza.
Fin qui niente di strano, considerando che il disappunto nei confronti di questo punto della riforma mette d’accordo costituzionalisti, politologi e politici da destra a sinistra. È la ragione addotta da Ruggieri che, francamente, lascia spiazzati: “I segretari di partito – scrive il direttore nell’editoriale – puntano dichiaratamente a riempire il Parlamento di gente anonima, a volte persino mediocre o fessa (sic) che come unico pregio ha quello di non poter mai fargli ombra”.
Ora, intendiamoci: che in ogni partito ci sia un capo, pochi generali e un numero più o meno cospicuo di soldati non è una novità. Come non è una novità il fatto che il decadimento della politica al quale assistiamo (impotenti?) da almeno trent’anni partorisca una classe dirigente non sempre all’altezza del proprio compito.
Ma arrivare addirittura a dire che larga parte dei parlamentari sia “mediocre o fessa” è cosa ardita, se non proprio grave. Un’affermazione, quella di Ruggieri (il quale ben conosce il Parlamento avendo frequentato Montecitorio durante la scorsa legislatura), che induce quantomeno a chieder conto ai nostri leader politici: davvero scegliete dei “fessi” come candidati? E perché mai? Perché portano in dote cospicui pacchetti di voti, come malignamente insinua la vulgata popolar-populista? Si obietterà: suvvia, non facciamo le verginelle. Ancora più grave, perché allora vuol dire che il problema è ben noto e non si fa nulla per risolverlo, e anzi lo si incentiva addirittura.
“Non vorrei dunque – rincara la dose Ruggieri – si potesse arrivare mai al paradosso di ritrovarsi, al posto di un premier eletto, un suo sostituto inadeguato, magari ritenuto più governabile. Abbiamo bisogno di persone in gamba, non di fessi”. Ecco.
Il vero problema legato alla norma anti-ribaltone, piuttosto, sembra essere un altro: attratto dalla possibilità di disarcionare un premier diventato scomodo, uno degli alleati di maggioranza potrebbe decidere di innescare una crisi di governo esponendo il capo del governo alla sfiducia delle Camere per poi prenderne il posto. Un potenziale cortocircuito, questo, che potrebbe contribuire ad accrescere quella instabilità che il premierato si prefigge se non di debellare, quantomeno di arginare.
Prima che tutto ciò diventi realtà, però, la riforma istituzionale deve passare dalle forche caudine del Parlamento. E già qui scoppia la prima grana, perché mercoledì scorso la maggioranza ha deciso di far partire l’iter non dalla Camera (come da prassi e da attese, visto che il binario del Senato era occupato dall’altra riforma, quella dell’Autonomia differenziata) ma da Palazzo Madama, scatenando l’ira funesta delle opposizioni.
Tre le ragioni, secondo i più maliziosi, dietro questa scelta: 1) il regolamento dell’Aula, che consente di contingentare modi e tempi del dibattito riducendo il rischio di azioni di disturbo da parte di avversari o eventuali alleati recalcitranti; 2) il lavoro già incardinato sulla riforma dell’autonomia disegnata dal leghista Calderoli, che dovrà essere portato velocemente a conclusione per poi avviare il cantiere del premierato: una garanzia, per la Lega, che il do ut des tra il Carroccio e la Fiamma Tricolore verrà rispettato; 3) la presenza in Aula di una serie di “angeli custodi” meloniani posizionati in ruoli-chiave: da Ignazio La Russa alla presidenza dell’Aula ad Alberto Balboni a quella della commissione Affari costituzionali passando per Luca Ciriani, titolare dei Rapporti con il Parlamento. Per tacere del potenziale “soccorso bianco” che la truppa di Italia Viva guidata dal senatore Renzi – finalmente libero dal “fardello” azionista – potrebbe garantire alla premier nel momento del bisogno. Anche se, come a più riprese ribadito da Raffaella Paita e Maria Elena Boschi, sul tema non ci sono cambiali in bianco: vedere cammello, pagare moneta.
Come recita il celebre adagio attribuito ad Agatha Christie, tre indizi (e mezzo) fanno una prova. E anche se la ministra delle Riforme Casellati ha già sdegnosamente respinto al mittente ogni illazione in tal senso (“Non capisco perché anche questo debba dar luogo a polemiche: se vogliamo andare a cercare sempre il pelo nell’uovo, cerchiamolo”), il “pensar male” di andreottiana memoria viene, eccome. Perché qua nessuno è fesso. Oppure no?