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Poteri del premier, a Giorgia Meloni servirebbe la “mossa del cavallo”

Idee in campo, ma alla presidente del Consiglio converrebbe più il premierato vagheggiato dall’opposizione che l’elezione diretta cara al centrodestra. Perché secondo Giuseppe De Tomaso

Non sarà una passeggiata il cammino della riforma elettorale predisposta da Giorgia Meloni. Non sarà una passeggiata non solo per le barricate parlamentari e mediatiche che, prevedibilmente, innalzeranno Pd e Cinque Stelle, ma anche per le perplessità – in particolare sull’elezione diretta e sui futuri poteri della presidenza del Consiglio – che cominciano a spuntare tra i banchi del centrodestra. E poi gli studiosi: c’è chi giudica eccessive le prerogative attribuite all’inquilino/a di Palazzo Chigi prossimo/a venturo/a e chi le giudica modeste, addirittura inferiori a quelle di un potenziale successore del capo del governo sublimato dal popolo. Sì, perché la caduta del premier eletto non comporterebbe lo scioglimento delle Camere. Viceversa, la caduta del premier subentrante, legittimato solo dal voto di fiducia parlamentare, provocherebbe il ricorso anticipato alle urne. Paradossalmente il meccanismo anti-ribaltone proteggerebbe il premier non-eletto, anziché quello eletto.

Non sappiamo se Giorgia Meloni apprezzi il gioco degli scacchi. Ma se fosse allenata a muovere i pezzi sulla scacchiera, lei farebbe bene a ricordarsi del movimento del cavallo, ossia della mossa più spiazzante sulla tavoletta quadrata – mossa che anche in politica potrebbe produrre analoghi risultati -, dal momento che le regole degli scacchi concedono solo al cavallo il potere di scavalcare tutte le altre pedine in campo. Passando dalla scacchistica alla politica: l’attuale presidente del Consiglio avrebbe fatto bene, e farebbe ancora bene, a prendere in contropiede i partiti di opposizione annunciando di voler adottare il loro modello di riforma costituzionale, soprattutto in merito alla figura del premier. Sarebbe questa la sua decisiva e, forse vincente, mossa del cavallo.

Una sortita di tal guisa non solo avrebbe troneggiato, e troneggerebbe, sulle prime pagine di tutti i giornali e i siti del pianeta, procurando alla premier un incasso in popolarità internazionale degno di un vincitore alle Olimpiadi; non solo avrebbe stroncato e rintuzzerebbe tuttora  sul nascere tutte le accuse di autoritarismo rivolte all’attuale canovaccio di ridisegno della Costituzione; non solo avrebbe messo in serio imbarazzo l’intera opposizione, esponendola al pericolo di inevitabili contrasti interni per il senso di responsabilità richiesto dal compito di concorrere alle nuove regole del gioco; ma avrebbe giovato alla premier, sul piano dell’immagine, più e meglio di un Premio Nobel per la pace e, sul piano della sostanza, più di una maggioranza assoluta parlamentare conquistata in cabina elettorale.

Diciamolo chiaro e tondo. Il premierato elettivo protegge poco o punto il titolare di Palazzo Chigi se quest’ultimo non è rafforzato strutturalmente da questi tre pilastri: 1) dall’istituto della sfiducia costruttiva (un governo non cade se un altro esecutivo non è in grado di rilevarne il posto); 2) dal potere di sfiduciare i ministri insufficienti, inadeguati, riottosi, recalcitranti; 3) dalla possibilità di interrompere la legislatura in caso di stallo della macchina decisionale o di pressioni politico-parlamentari, dentro la coalizione di governo, incompatibili con il cronoprogramma e gli obiettivi del primo ministro.

Sono i tre poteri testé elencati a rendere particolarmente salda la figura del capo del governo in parecchi Paesi europei, non certo l’elezione popolare del premier che, da sola, non risolve e risolverebbe un bel niente, come dimostra la storia di tutti i sistemi democratici afflitti dal parlamentarismo cronico. E sui tre poteri (sopra menzionati), da assegnare al numero uno dello schieramento elettorale vittorioso, da tempo concordano, in tutto o in parte, larghi settori del centrosinistra.

In soldoni: alla stessa Giorgia Meloni, oltre che ai suoi potenziali successori, conviene lo schema di riforma di cui si discute nel centrosinistra e che, nei fatti, guarda con interesse al cancellierato tedesco, anziché il progetto di una riforma italianissima tutta da scoprire, perché mai abbozzata/sperimentata nel resto del mondo, e che di sicuro non sembra attrezzata a soddisfare le esigenze di stabilità governativa avvertite in quasi tutte le forze politiche presenti nelle due aule legiferanti.

Del resto non sarebbe la prima volta che la riscrittura di un assetto costituzionale giovi (eterogenesi dei fini) alla parte politica che l’aveva contrastata. Uno, perché il cambio delle regole spesso sovverte anche l’offerta e la domanda in materia elettorale, oltre che il responso da parte dei votanti. Due, perché mai come adesso l’elettorato si sta rivelando più volatile e volubile della moda in passerella. Tre, perché – come accennato – provvede la Storia a rammentare le incredibili sorprese generate, nell’urna, dalle modifiche nella filiera del comando.  Il socialista francese François Mitterrand (1916-1996) bollò come <colpo di stato permanente> il semipresidenzialismo introdotto dal suo acerrimo nemico Charles de Gaulle (1890-1970). Poi grazie al modello costituzionale gollista, Mitterrand salì all’Eliseo addirittura per due settennati. Idem, o più o meno così in Italia, dove tutte le riforme elettorali e istituzionali hanno finito per avvantaggiare proprio coloro che le avevano osteggiate.

Giorgia Meloni faccia tesoro delle indicazioni fornite dalla storia degli ordinamenti politici e prenda in considerazione la mossa del cavallo. Si presenti in aula e si dichiari disponibile a condividere le proposte dell’opposizione sul rafforzamento dei poteri del premier. Farebbe un figurone, oltre che un affare, perché si ritroverebbe con più poteri, per sé e per i futuri diadochi, di quelli delineati nel suo testo di riforma. Peraltro, anche lei forse conviene sul fatto che il suo premierato è tale solo a parole, dal momento che al numero uno del governo non viene affibbiata né la qualifica (albionica) di premier, né la dizione (italica) di primo ministro, ma soltanto quella nostrana (e meno incisiva) di presidente del Consiglio. Che, a dispetto di ogni cambiamento costituzionale, rimane e rimarrà soltanto un primus inter pares se non disporrà del potere di rimandare a riva il ministro che gli rema contro. Domanda: vale la pena rischiare mari e monti per così poco?


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