Sulle riforme istituzionali, meglio optare per sistemi collaudati come quello tedesco. I sistemi troppo rigidi potrebbero, paradossalmente, complicare e paralizzare il processo decisionale. L’analisi di De Tomaso
Se ci trovassimo al posto di Giorgia Meloni, ci guarderemmo bene dall’accelerare la marcia verso la cosiddetta Terza Repubblica. E non già perché la Seconda Repubblica funzioni meglio di un orologio elvetico, anzi necessita di incisive revisioni, quanto perché la scaramanzia e la storia sconsiglierebbero le novità. Forzare la mano per cambiare il sistema politico e il modello costituzionale, solitamente non porta bene.
Non soltanto in Italia. Charles de Gaulle (1890-1970), che pure era de Gaulle, era convinto che sarebbe stata una formalità sottoporre al giudizio dei francesi la riforma del Senato e la costituzionalizzazione delle regioni. Calcoli sbagliati. I suoi connazionali voltarono le spalle in cabina elettorale al Generale costringendolo a gettare la spugna e ad auto-esiliarsi. In Italia, poi, la lista delle riforme costituzionali e istituzionali abortite, o bocciate, è più lunga di una coda autostradale a Pasquetta. Non si contano, inoltre, le carriere politiche bloccate o rallentate da scivoloni sul terreno delle riforme. Persino Alcide De Gasperi (1881-1954), promotore di un tentativo (bollato dagli avversari come legge truffa) teso a premiare con i due terzi dei seggi parlamentari la coalizione che, alle politiche, avesse superato il 50% dei voti popolari, dovette defilarsi dal proscenio a causa del mancato successo, nell’urna, della sua proposta correttiva.
Ma chi più chi meno, da Bettino Craxi (1934-2000) a Massimo D’Alema (voce Bicamerale), da Silvio Berlusconi (1936-2023) a Matteo Renzi, nessuno è uscito indenne dalle battute d’arresto durante le rispettive partite per cambiare le regole del gioco. Segno (poco probabile) di un accanimento, da parte di una Spectre invisibile, o del solito destino cinico e baro, contro gli indomiti riformatori smaniosi di rendere più rapido e più tracciabile il processo decisionale made in Italy? O segno (assai probabile) che alla stragrande maggioranza della Penisola interessino poco o nulla le logomachie sulla materia costituzionale-elettorale? La verità è che nessun’alleanza governativa potrà mai aver ragione dell’aritmetica.
Infatti: la legge dei numeri sta lì a rammentare che tutte le forzature sulle riforme di sistema producono l’effetto di agevolare la mobilitazione di tutti i contrari al nuovo assetto. Ergo, quasi mai un esecutivo, abitualmente sostenuto dai voti di una maggioranza relativa nel Paese, riesce ad avere la meglio nei confronti di una coalizione-arlecchino tra tutti gli opposti (opposti tra loro, e opposti anche a Palazzo Chigi). Di conseguenza, neppure un redivivo Giuseppe Garibaldi (1807-1882), l’italiano più celebrato e meno divisivo, riuscirebbe oggi a prevalere su uno schieramento in grado di sommare tutti i suoi avversari e rivali.
Intendiamoci. Se un pacchetto di riforme avesse i numeri parlamentari (due terzi) per schivare l’insidia della conferma elettorale, nulla quaestio. Il test nell’aula risulterebbe assai più abbordabile del test tra i cittadini. Ma dal momento che solo un colpo di scena, ora più improbabile della neve all’Equatore, potrebbe consentire a Giorgia Meloni di schivare il referendum popolare, non si capisce per quale motivo la presidente del Consiglio si sia decisa a cavalcare le ragioni del sì a un riassetto costituzionale che comprendendo, innanzitutto, l’elezione diretta del presidente del Consiglio, pare destinata a spianare la strada a una campagna campale tra il Fronte del sì e il Fronte del no (alla Terza Repubblica).
Con relativo surriscaldamento del clima politico e assai probabile convergenza tra rivali e avversari della titolare di Palazzo Chigi. La presidente del Consiglio ha già detto che non politicizzerà la contesa referendaria e che non si dimetterebbe in caso di bocciatura del provvedimento da parte delle urne. Ma una sconfitta su un argomento chiave come la Grande Riforma non potrebbe essere archiviata senza conseguenze per il governo in carica.
Nei panni di Meloni avremmo cercato un’intesa preventiva sul modello tedesco, caratterizzato dalla sfiducia costruttiva. Uno, perché l’elezione diretta del premier ridurrebbe automaticamente il peso del Capo dello Stato, anche se quest’ultimo conservasse tutti i suoi poteri.
Due, perché, optando per il modulo germanico sarebbe stato più semplice raggiungere la maggioranza parlamentare qualificata (due terzi), evitando così l’insidia del referendum popolare. Tre, perché il sistema politico tedesco è tutt’altro che instabile, come dimostra la recente storia della Germania. Una volta formato, il governo del Cancelliere risulta da sùbito più solido di un comò, dato che la sfiducia costruttiva lo protegge da tutti i piani dei male intenzionati. Già.
Una cosa è progettare una manovra per abbattere un esecutivo, un’altra cosa è portarla a compimento. Come si fa, infatti, ad allestire una nuova alleanza in grado di subentrare in tempo reale al governo appena sfiduciato? Ci vorrebbe un team composto dai migliori seguaci di Niccolò Machiavelli (1469-1527) per realizzare l’impresa. Il che scoraggerebbe i più assidui tra cecchini e malpancisti vari.
Ecco perché al posto della presidente Meloni azioneremmo il freno a mano sulla macchina delle riforme. Il rischio di ripetere il flop dei predecessori vogliosi di modificare radicalmente l’impalcatura decisionale è assai concreto. E non è finita qui.
Lo schema di riforma costituzionale abbozzata finora non si ispira a un modello già collaudato in Europa. Il che non è rassicurante. Chi garantisce che possa funzionare in Italia? Non sarebbe preferibile, invece, importare un sistema già sperimentato in Europa, e di cui già si conoscono vizi e virtù? Si sa: meglio affidarsi all’usato sicuro che al nuovo insicuro. O no?
L’elezione diretta del premier non è, di per sé, garanzia di stabilità politica, come lo sarebbero, invece, molto più verosimilmente, la sfiducia costruttiva e il potere, da attribuire al capo del governo, di mandare via un ministro poco in linea con il programma stabilito. A meno che la portata simbolica dell’introduzione del Sindaco d’Italia sia ritenuta così luminosa da poter abbagliare tutte le controindicazioni.
Né sarebbe il caso di scatenare una guerra d religione contro i famigerati ribaltoni, che ovviamente vanno ostacolati. Ma non tutti i governi mantengono le promesse di operare per il meglio e di rispettare il programma elettorale. Che facciamo, in caso di fallimenti periodici: si vota ogni anno, col rischio di mandare in tilt una nazione per eccesso di democrazia elettorale? Anche una leggenda come Winston Churchill (1874-1965) volteggiò tra i conservatori e i liberali, di sicuro non fu un testimonial di fedeltà politica. Ma il premier inglese, vincitore del nazismo, non venne mai meno ai suoi princìpi di base. Anzi. “C’è chi cambia idea per un partito e chi cambia partito per un’idea”, spiegò.
Che succederebbe se un partito o una coalizione dovessero cambiare rotta rispetto al programma sottoposto al giudizio degli elettori? Il deputato semplice dovrebbe restare ligio ai proponimenti elettorali da lui sottoscritti o, per non perdere il posto, dovrebbe adeguarsi al nuovo diverso corso deciso dai vertici del suo partito? In tal caso sarebbe singolare se la coerenza fosse valutata soltanto in base alla fedeltà al capo, anziché alla linea politica per la quale si è chiesto il consenso dei votanti.
Ecco perché un maestro di politologia come Giovanni Sartori (1924-2017) auspicava sistemi elettorali flessibili, quasi capaci di correggersi in corso d’opera di fronte alle eventuali insufficienze, o agli intoppi imprevedibili sul cammino di una squadra o di una maggioranza di governo. Guai, quindi a ingessare, a irrigidire un modello. Si rischia la paralisi permanente. E poi: perché procedere a mosca cieca, in nome di una malintesa via nazionale alle riforme, quando sul mercato internazionale degli ordinamenti costituzionali ed elettorali si possono scegliere le tipologie, ben funzionanti, più adatte e/o congeniali alle peculiarità italiane? Già, perché?