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Spesa farmaceutica, finalmente qualche novità per l’innovazione

Di Vincenzo Fortunato

Oggi le multinazionali sono chiamate a sopportare il 98% dell’onere da payback avendo una quota di mercato complessiva pari all’80% mentre le imprese con portafoglio di farmaci del canale della spesa convenzionata, a fronte di una quota di mercato complessiva pari al 20%, sostengono l’onere del payback solo per il 2%. Ma qualcosa si muove. Il commento di Vincenzo Fortunato, avvocato e docente di diritto amministrativo

É apprezzabile lo sforzo intrapreso dal legislatore che ha iniziato a porre rimedio ad una palese anomalia del sistema di finanziamento della spesa farmaceutica in Italia. Com’è noto da anni, il legislatore ha stabilito un tetto complessivo per la spesa farmaceutica e due sub-tetti di spesa, distinti e non comunicanti, relativi alla cosiddetta spesa convenzionata (acquisto dei farmaci da parte dei cittadini in farmacia) e alla cosiddetta spesa diretta (acquisto di farmaci da parte delle strutture pubbliche del Ssn direttamente dalle imprese farmaceutiche).

In caso di sforamento di tali tetti gli operatori interessati (filiera produttiva e commerciale del farmaco destinato alla spesa convenzionata e imprese farmaceutiche relativamente alla spesa diretta) devono rimborsare in parte detto sforamento. In punto di fatto, il tetto della spesa convenzionata è da sempre sovra finanziato, ossia in avanzo ma al contrario quello della spesa diretta è da sempre costantemente sotto finanziato. Ciò ha comportato che solo le imprese produttrici di farmaci destinati al canale diretto sono state chiamate a ripianare gli sforamenti verificatisi (nel 2023 il rimborso stimato sarà di 1,7 miliardi).

Sempre in punto di fatto, i farmaci del canale della spesa convenzionata sono per lo più prodotti da imprese italiane mentre quelle destinate al canale della spesa diretta sono prodotti da imprese multinazionali anche con stabilimenti in Italia. Ed è difficile non vedere il carattere protezionistico e anti concorrenziale dell’attuale sistema più volte rappresentato e sempre sottaciuto dalla politica e dalla giurisprudenza. Alcuni numeri sono più indicativi di ogni ragionamento: le multinazionali sono chiamate a sopportare il 98% dell’onere da payback avendo una quota di mercato complessiva pari all’80% mentre le imprese con portafoglio di farmaci del canale della spesa convenzionata, a fronte di una quota di mercato complessiva pari al 20%, sostengono l’onere del payback solo per il 2%.

Tuttavia, qualcosa si è mosso. La legge di bilancio per il 2024, in discussione in Parlamento, incrementa il Fsn di 3 miliardi per il 2024, di 4mldper il 2025 e, a decorrere dal 2026, di 4,2 miliardi. Ritoccando le percentuali dei sub-tetti garantisce che tali incrementi vadano a beneficio delle sole imprese produttrici destinate al canale della spesa diretta. Ed è una misura tuttavia largamente insufficiente, è necessario infatti rimodulare drasticamente i sub-tetti in modo da ridurre l’enorme avanzo della spesa convenzionata: è innegabile, peraltro, che la scelta del legislatore va nella giusta direzione per rendere attrattivo il nostro Paese (un recente studio presentato al Forum di Cernobbio colloca l’Italia al 17° posto tra i paesi con una buona attrattività ben dietro la Germania, la Francia e la Spagna che hanno visto, infatti, negli ultimi anni un consistente incremento degli investimenti diretti esteri).

L’importanza degli investimenti delle multinazionali nella farmaceutica è innegabile: basti pensare che il 100% dei farmaci ritenuti innovativi dall’Aifa sono prodotti da aziende a capitale estero, le quali garantiscono il 46% degli attuali livelli di occupazione del settore, il 90% degli investimenti in ricerca e il 60% della produzione complessiva del settore farmaceutico. Non resta che sperare che la strada intrapresa sia ulteriormente perseguita nel prossimo futuro tenendo presente che, nel rispetto dei vincoli di bilancio, va evitato che una eccessiva pressione (assimilabile ad una pressione fiscale) sulle imprese multinazionali incida pesantemente e irragionevolmente sull’attrattività del Paese demotivando queste ultime da fare investimenti in Italia e spingendole verso altri paesi anche europei più attrattivi.

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