L’ex presidente e probabile sfidante di Biden promette di far saltare il Green Deal americano e “massimizzare la produzione di combustibili fossili”. Possibile che una nuova amministrazione da lui guidata abbia ripercussioni sulle emissioni statunitensi ma anche sul friend-shoring globale. Tuttavia, gli Stati che più hanno beneficiato dei sussidi green sono a guida repubblicana, le aziende hanno aggiustato i loro piani e la rete di alleanze ha riflessi sulle scelte interne
L’Inflation Reduction Act, il Green Deal statunitense disegnato dall’amministrazione di Joe Biden e approvato nel 2022, sta imprimendo un’accelerazione alla transizione ecologica statunitense mobilitando 370 miliardi di dollari sotto forma di sussidi, prestiti e crediti d’imposta. Ma il fatto che sia molto orientato verso l’energia pulita l’ha sempre reso inviso ai membri del Partito repubblicano, che l’hanno osteggiato a ogni passaggio. E l’ex presidente Donald Trump, che oggi domina i sondaggi per le primarie del partito, lo ha già messo nel mirino.
Le sue posizioni espresse nel corso della campagna elettorale (e raccolte dal Financial Times) disegnano un quadro fosco per la transizione degli Stati Uniti, che oggi non sono solo i principali emettitori pro capite, ma anche il volano principale per l’impegno climatico del maggior emettitore al mondo, la Cina. Trump – che non crede nel cambiamento climatico, non ha mai nascosto la sua avversione per l’energia verde e a suo tempo fece uscire Washington dagli accordi di Parigi, cosa che probabilmente farebbe di nuovo – ha giurato di smantellare l’Ira (“il più grande aumento di tasse della storia”) ed eliminare i limiti all’estrazione di combustibili fossili.
L’ex presidente si è impegnato a “ritirare ogni singolo regolamento di Joe Biden che uccide i posti di lavoro e le industrie” fin dal giorno uno, ha dichiarato Carla Sands, consigliere di Trump e vicepresidente del Centro per l’energia e l’ambiente dell’America First Policy Institute, un think-tank conservatore. Altri hanno indicato che i funzionari repubblicani di una seconda amministrazione Trump “sarebbero armati di un mandato per revisionare o abolire le agenzie governative, epurare lo staff, tagliare la spesa per i programmi di energia pulita e abrogare le restrizioni all’industria dei combustibili fossili”, raccontano le fonti di FT.
Nei piani di chi sta già immaginando l’amministrazione Trump 2.0, pronta a partire non appena si insediasse, c’è l’eliminazione delle agenzie del dipartimento dell’Energia che sono essenziali per l’Ira, inclusa quella dei prestiti (che sta erogando miliardi alle industrie per aiutarle a decarbonizzarsi), quella per le rinnovabili e per l’efficienza energetica – tutti elementi che agli occhi dei repubblicani rappresentano un peso morto per le loro ambizioni di sicurezza energetica e prosperità. Una parte della campagna di Trump si sta giocando anche sul costo dell’energia e sulla percezione diffusa che la spinta verso quella pulita stia costando cara agli elettori.
A ogni modo, un cambio di direzione così repentino potrebbe andare di traverso sia alle industrie che agli Stati, che in linea di massima hanno accolto favorevolmente l’Ira e aggiustato i propri piani per poter attingere ai miliardi in sovvenzioni. L’installazione di impianti rinnovabili, che è appannaggio dei singoli Stati, stava già crescendo durante la prima amministrazione Trump. E – crucialmente – la maggior parte degli investimenti nell’ambito dell’Ira è stata destinata ai distretti repubblicani degli Stati Uniti, cosa che potrebbe aumentare la resistenza politica anche all’interno del partito. Non è inusuale: l’abbattimento del costo del solare lo ha reso più conveniente di centrali alimentate a combustibili fossili.
C’è poi la questione degli sforzi condivisi tra Stati Uniti e alleati per contrastare lo strapotere cinese nel settore delle materie prime e creare delle catene di approvvigionamento più resilienti che includano solo Paesi alleati e partner. Le misure protezionistiche dell’Ira hanno limiti stringenti sull’origine delle materie prime che servono per le tecnologie verdi come le batterie: devono provenire in percentuali crescenti da Paesi con cui gli Stati Uniti hanno un accordo di libero scambio. A oggi sono Canada, Messico e Giappone, con l’Ue sull’orizzonte, anche se il patto su acciaio e alluminio – che sarebbe dovuto essere prodromico a un accordo sulle materie prime – è saltato.
Qui le proiezioni su un’eventuale nuova amministrazione Trump sono meno definite. Da un lato Trump non si è fatto scrupoli nell’aprire una guerra commerciale con gli europei, imponendo dazi proprio su acciaio e alluminio, e ha adottato una linea isolazionista in politica estera alienando i partner. Dall’altra non è detto che voglia smantellare un meccanismo in divenire – un “club” di Paesi dediti al friend-shoring – che oltre a essere un canale commerciale vantaggioso può rivelarsi un’arma potente per contrastare la Cina, a sua volta la priorità numero uno di politica estera per il Partito repubblicano.
L’approvvigionamento dei materiali, così come i sussidi per l’energia nucleare, sono elementi dell’Ira che si allineano con la proposta repubblicana e che difficilmente una presidenza Trump 2.0 vorrà rimuovere anche a costo di inimicarsi intere filiere. Per prendere un esempio tra tutti, l’industria dell’auto statunitense ha puntato pesantemente sull’elettrico – una scommessa che oltre ai sussidi Ira tiene conto anche della direzione del mercato globale e che si è tradotta in centinaia di miliardi in investimenti per gli accordi di approvvigionamento, le batterie, gli impianti, le catene di assemblaggio. Difficile che una Casa Bianca repubblicana voglia fargli mancare il supporto di punto in bianco.