Al posto di Giorgia Meloni scarteremmo l’idea del premierato elettivo. Si corre il rischio di spianare la strada a una figura come Chiara Ferragni o un suo parigrado della rete. Un consiglio: rileggere Kissinger
Se ci trovassimo al posto di Giorgia Meloni, o di un altro ipotetico capo di governo, a tutto penseremmo tranne che a proporre l’elezione diretta del primo ministro o del Capo dello Stato. Non già perché, sulla carta, queste riforme potrebbero rivelarsi pericolose per la democrazia e irrispettose verso i poteri di garanzia, che costituiscono l’architrave del costituzionalismo liberale. Ma perché queste riforme fondate sull’investitura popolare dei governanti rischierebbero, oggi, di consegnare il Paese ai padroni della Rete, siano quest’ultimi in versione Ferragni-Fedez o in versione Musk o in versione Zuckerberg. Per la classe politica professionale, per la politica in genere, e soprattutto per le comunità dei cittadini, questo travaso di poteri costituirebbe un colpo micidiale.
Rileggiamo le riflessioni di Henry Kissinger (1923-2023) contenute nel suo saggio “L’ordine mondiale” pubblicato una dozzina di anni fa: “Le campagne presidenziali Usa sono sul punto di trasformarsi in competizioni mediatiche tra grandi operatori di Internet. Al posto dei sostanziali dibattiti di un tempo sul contenuto dell’attività di governo, avremo candidati ridotti a portavoce di un’operazione di marketing, condotta con metodi la cui intrusività soltanto una generazione fa sarebbe stata considerata roba da fantascienza. Il ruolo principale dei candidati potrebbe diventare la raccolta di fondi, invece dell’elaborazione dei programmi. Può la democrazia evitare un’evoluzione verso un esito demagogico, basato sul gradimento emotivo di massa anziché sul processo ragionato immaginato dai Padri fondatori?”.
Kissinger, che non era un uomo qualunque, aveva previsto tutto. I grandi operatori di Internet, che oggi monopolizzano i primi posti dell’hit parade dei Paperoni mondiali, già uniscono – a differenza dei loro predecessori saliti in passato nella classifica dei più danarosi -, potere politico, potere economico e potere mediatico nella stessa persona. Sono loro i grandi burattinai, i grandi manovratori dell’opinione pubblica. I più ambiziosi, fra i big della Rete, non nascondono di voler occupare, un giorno, le più prestigiose caselle istituzionali di un Paese. I più cauti, come lascia intendere Kissinger, si affidano, si affideranno ai fenomeni internettiani più performanti, pescando tra gli influencer più seduttivi. Nel frattempo gli influencer che si sono fatti da sé troneggiano da tempo sulla scena pubblica con l’autostima tracimante di un Novak Djokovic o di un Cristiano Ronaldo.
È il caso di Chiara Ferragni, i cui suggerimenti quotidiani vengono seguiti da milioni e milioni di follower, roba che oggi farebbe crepare di invidia persino un redivivo Napoleone (1769-1821). E non a caso, quando un’influencer del suo calibro si ritrova in difficoltà, vedi il caso dei panettoni, la vicenda scatena fiumi di parole e di inchiostro da mandare in apnea l’intera Penisola.
Meloni fa bene a non perdere di vista la regina dei social. Fa meno bene ad attaccarla direttamente, contribuendo a legittimarla come competitrice politica. Di sicuro fa bene a non sottovalutarne l’influenza, il raggio d’azione, la presa psicologica su vaste fasce di popolazione. Ma proprio perché Ferragni non è una figura evanescente, malgrado gli ultimi passi falsi, sorprende la perseveranza dell’inquilina di Palazzo Chigi nel battersi con forza per l’elezione diretta del presidente del Consiglio.
Chissà se la fondatrice di Fratelli d’Italia abbia mai riflettuto sul fatto che, in un sistema presidenziale o di premierato elettivo, lei potrebbe ritrovarsi la Ferragni o un suo equipollente nella gara per la guida dell’esecutivo. Giorgia Meloni potrebbe obiettare raccomandando di non esagerare in previsioni eccentriche e stravaganti. Potrebbe osservare che i partiti presenti in Parlamento sono ancora vivi e vegeti, e che nessuno potrebbe fare a meno delle macchine politiche tradizionali. Ma davvero la discesa in campo di un’influencer appartiene all’elenco delle ipotesi irreali? Davvero i partiti odierni sono più indispensabili dell’aria e più duraturi del cemento? Bah. La verità è che la metamorfosi socio-politica del mondo d’oggi è così vorticosa e tumultuosa da sfuggire persino ai più collaudati radar d’osservazione. Non a caso la politica annaspa e insegue. Un tempo la politica aveva la forza di regolare ogni innovazione, per sventare in tempo la formazione di colossi dominanti. Stavolta, però, la politica appare assai più debole e frastornata di fronte alla social-crazia e all’algoritmo-crazia, ai mattatori del Web. Ha sempre più paura di mettersi di traverso e di patirne i contraccolpi.
Ecco perché, per riprendere il filo del discorso iniziale, se c’è una proposta che una leadership politica dovrebbe scartare prima di abbozzarla nero su bianco, questa è la scelta diretta del premier o del Presidente della Repubblica. Anzi, i più rinomati think tank politologici internazionali dovrebbero farsi carico della crisi che attanaglia le democrazie, crisi che rischia di consegnarle alle star della Rete e ai proprietari dei dati personali di miliardi di persone, per suggerire una via d’uscita opposta al canto delle sirene eseguito dal direttismo leaderistico. Stop agli ordinamenti basati sull’investitura popolare di chi governa. Disco verde ai sistemi fondati sul passaggio parlamentare. Se persino Kissinger paventava, più di dieci anni addietro, lo strapotere politico dei giganti del Web e la retrocessione dei candidati presidenti, negli States, al grado di esecutori e impiegati dei primi, figuriamoci cosa potrebbe accadere nelle altre democrazie del pianeta, dove la cultura della separazione dei poteri non è certo paragonabile a quella tuttora in auge negli Usa.
Conclusione. Un tempo era persino auspicabile la correzione in senso presidenziale di una democrazia refrattaria alle decisioni immediate e incline alle discussioni inconcludenti. Adesso, no. Adesso, qualora l’idea dell’elezione diretta del capo giungesse in porto tra gli applausi della maggioranza del Paese, la nostra democrazia correrebbe il pericolo di inchinarsi al duello tra i super-influencer del momento. Si dirà: ma restando fermi, non facendo nulla, si rischia un’eterna paralisi decisionale. Non è vero. Per fortuna non mancano, in Europa, modelli costituzionali in grado di conciliare rappresentatività e governabilità, mediazione e decisione. Sono modelli non suscettibili di finire lacerati nelle battaglie tra i top player di Internet. E comunque. Meglio puntare sull’usato sicuro, con la consapevolezza, ovviamente, che la perfezione non è di questo mondo.