Il Carnegie lancia l’allarme a Washington: è Pechino a guidare il processo internazionale per la governance del “deep sea mining”. La questione riguarda anche i Sette. Si parte dalla dichiarazione di Sapporo
È la Cina a guidare il processo internazionale di definizione della regolamentazione dell’estrazione mineraria dai fondali oceanici (deep sea mining) dove si trovano enormi concentrazioni di cobalto, nichel, rame, zinco e manganese, essenziali per le tecnologie verdi e rinnovabili e per molte applicazioni nel settore della difesa e dell’aerospaziale. A scriverlo, suonando l’allarme agli Stati Uniti, sono Isaac Kardon e Sarah Camacho, ricercatori del programma Asia presso il think tank Carnegie.
Le priorità cinesi
I fondali sono “frontiere strategiche” secondo la Legge sulla sicurezza nazionale cinese del 2015, rappresentano un’opportunità per l’economia cinese che soffre di carenza di risorse naturali, offrono vantaggi intrinseci per obiettivi militari (basti pensare ai dati raccolti durante l’esplorazione) e forniscono a Pechino l’occasione di esercitare il suo potere nella definizione delle regole globali e affrontare alcune vulnerabilità strategiche percepite. Sono queste le quattro ragioni per le quali la Cina consolida la sua posizione, spiegano i due esperti.
L’assenza americana
Kardon e Camacho definiscono l’assenza di Washington nel dibattito come “una grave mancanza di attenzione” vista la concentrazione americana verso la resilienza delle catene di approvvigionamento di minerali critici. Infatti, gli unici contraltari alla Cina sono il Regno Unito, la Germania, la Francia e alcuni voci sparse provenienti dal mondo in via di sviluppo, dalla comunità scientifica e dalle organizzazioni ambientaliste.
Le opportunità per Washington
Non avendo ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, Washington è presente all’Autorità internazionale per i fondali marini con lo status di osservatore, cioè senza diritto di voto. Ma secondo gli esperti può adottare almeno tre strategie per contrastare l’ascesa cinese in questo settore, in vista della riunione dell’Autorità fissata a luglio dell’anno prossimo. Prima: far fronte comune con i gruppi ambientalisti isolando la Cina e la sua corsa “sconsiderata” verso l’estrazione mineraria che vanifica i suoi sforzi per presentarsi come un attore globale responsabile. Seconda: sfruttare le contraddizioni della Cina, la cui posizioni sono cambiate radicalmente dagli anni Settanta, quando difendeva gli interessi dei Paesi in via di sviluppo contro potenze marittime predatrici, cioè ciò che ora è diventata. Terza: ratificare i trattati per avere un ruolo guida nella definizione della governance.
Un ruolo per il G7 italiano?
Sotto la presidenza giapponese del G7 che volge al termine, i ministri dei Sette per il Clima, l’Energia e l’Ambiente si sono incontrati ad aprile a Sapporo, sull’isola di Hokkaido, sottoscrivendo un comunicato in cui veniva menzionato lo sfruttamento minerario del fondo marino. Il G7, si legge, “continuerà a partecipare attivamente allo sviluppo di un quadro normativo sull’esplorazione mineraria del fondo marino presso l’Autorità internazionale per i fondali marini, che assicuri una protezione efficace dell’ambiente marino dagli effetti dannosi che potrebbero derivare da tali attività, come richiesto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare”. È da qui che inizia il lavoro del G7 italiano che inizierà ufficialmente il 1° gennaio.
(Foto: geomar.de)