Oggi, più di tante parole, sono le immagini a raccontare il tempo irreparabilmente perduto, è lo choc drammatico di montagne di ghiaccio girovaganti negli oceani con il loro destino segnato. Sono le scene degli iceberg alla deriva, a partire dal più grande del mondo. Alla Cop28 si cercherà di allineare le ambizioni sulla monetizzazione dei danni catastrofali in corso nei Paesi poveri, ma molti sono gli ostacoli ai negoziati. L’analisi di Erasmo D’Angelis
È dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, che i rappresentanti dei 200 Paesi del Pianeta che hanno ratificato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si riuniscono, ormai per 28 volte nelle Conferenze delle Parti, per affrontare il tema vitale della riduzione delle emissioni killer di anidride carbonica in atmosfera, insomma la questione climatica.
Ma l’andirivieni da un summit globale all’altro, finora è stato fallimentare e le diplomazie climatiche se hanno alimentato qualche speranza, come nella Cop3 di Kyoto del 1997 e soprattutto nella Cop21 di Parigi del 2015 che produsse un accordo entrato in vigore il 4 novembre 2016 considerato “vincolante”, hanno visto finora ogni obbligo e ogni impegno preso non rispettati.
Ci riprovano in una Dubai a festa per l’affollatissima Cop28 nel Paese tra i più grandi esportatori di energia fossile ma contemporaneamente tra i più grandi investitori nelle energie rinnovabili, con il record di 70.000 partecipanti in un mare di sessioni fino al 12 dicembre, quando sapremo se quantomeno il mondo inizierà sul serio a frenare il conto alla rovescia dello scenario più estremo che proietta impatti climatici devastanti su popolazioni ed ecosistemi.
Al centro della 28esima Conferenza delle Parti, c’è soprattutto lo scongelamento del Global Stocktake, il meccanismo inserito nell’Accordo di Parigi che doveva servire a monitorarne l’attuazione e il raggiungimento degli obiettivi concordati, che oggi tutti danno per miseramente falliti, per non superare a fine secolo la soglia di rischio allora definita a più 1.5°C. Una linea del fuoco che a Dubai sarà dichiarata superata. A fine secolo, senza correzioni di rotta, l’aumento della temperatura è nel range tra 2,1 e 2,8 °C in più sulla media del periodo preindustriale 1850-1900. E le annunciate “zero emissioni globali di gas serra al 2030” saranno invece previste in aumento dell’8,8% rispetto al 2010.
Del resto, già questo 2023 brucia ogni record di temperatura ed entrerà nella storia come l’anno più caldo mai rilevato, con il 17 e 18 novembre scorsi sulla soglia inesplorata dei 2°C di aumento termico globale. Il trend della temperatura globale oggi sta volando a fine secolo verso i +1,7 °C. e oltre i 2 gradi, stando anche alle previsioni modellistiche dell’Ipcc, il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici dell’Onu, con concentrazione di CO2 nell’atmosfera a 415,95 parti per milione, e temperatura media globale già nel 2023 sopra le media degli ultimi secoli, e il calore delle acque di oceani e mari superiori ai valori medi precedenti, con il nostro Mediterraneo che si riscalda del 20% in più degli altri mari e oceani. Il rischio concreto è di saltare nella linea del fuoco degli oltre 2 gradi, il più temibile “punto di non ritorno” che bisogna assolutamente scongiurare.
A Dubai cercheranno di allineare intanto le ambizioni sulla monetizzazione dei danni catastrofali in corso nei Paesi poveri, prodotti da tempeste e inondazioni, siccità e carestie e dall’aumento del livello degli oceani e dei mari. Oggi costano in media 75 miliardi di dollari ogni 6 mesi, come calcola Swiss Re Institute, con aumenti costanti negli ultimi 10 anni, e solo per un terzo coperti da polizze assicurative. Si punta al finanziamento del “Loss and damage”, il fondo definito nella Cop27 e finalizzato a riparare e risarcire perdite e danni nei Paesi in via di sviluppo con 100 miliardi di dollari promessi ogni anno dai Paesi ricchi ai Paesi in via di sviluppo attraverso il “Green climate fund” per risarcire e sostenere i Paesi a più basso reddito e i più colpiti dall’emergenza climatica ma i meno responsabili.
Una scelta che almeno riconosce le conseguenze della crisi climatica e il diritto ad una compensazione. Il presidente del consiglio Giorgia Meloni ha annunciato a sorpresa che l’Italia contribuirà con 100 milioni di euro di finanziamenti al fondo Loss and Damage, al pari delle cifre annunciate da Emirati Arabi e Germania. Si aspettano però gli impegni concreti soprattutto dei grandi emettitori di gas climalteranti come Cina, India, Usa, Ue, Russia, Giappone che con il 49,2% di popolazione mondiale complessiva consumano il 66,4% di combustibili fossili e producono il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile. Se poi faranno ancora muro sulla proposta di riduzione di tutte le fonti fossili con misure “graduali” e a chiare validazione di obiettivi di mitigazione, lo sapremo presto.
Ma c’è da dire che pesa e molto la situazione geopolitica internazionale. Non aiutano il clima i due conflitti globali in corso, l’aggressione della Russia all’Ucraina e quella di Hamas a Israele, che fanno “sparare” in atmosfera anche giga-tonnellate di altre emissioni killer, costringendo le politiche energetiche di tanti Paesi a riaprire obsolete centrali a carbone, ad acquistare quote di gas o a costruire nuove infrastrutture per la sua estrazione e lo sfruttamento. L’interruzione dei percorsi di decarbonizzazione che avrebbero dovuto essere avviati dopo l’accordo di Parigi, è la contraddizione massima che pesa anche nei negoziati di Dubai. Non sarà facile chiudere il cerchio con impegni concreti e quadri normativi stabili e ambiziosi, e programmi di adattamento anche nei Paesi più vulnerabili. Ma una cosa è certa, non bastano più le parole di circostanza e nemmeno i target irraggiungibili che nessun grande emettitore di CO2 si è dimostrato in grado finora di poter ridurre. Però servirebbero almeno 22 giga-tonnellate di CO2 in meno nei prossimi 7 anni, come chiede Jim Skea, il fisico scozzese nuovo presidente dell’Interngovernmental Panel on Climate Change, per provare ad arginare “la minaccia letale” delle peggiori conseguenze per catastrofi e migrazioni mai viste.
E oggi, più di tante parole, sono le immagini a raccontare il tempo irreparabilmente perduto, è lo choc drammatico di montagne di ghiaccio girovaganti negli oceani con il loro destino segnato di sciogliersi per fusione. Sono le scene degli iceberg alla deriva, a partire dal più grande del mondo che dopo essersi staccato dalla costa Antartica nel 1986, dopo essere rimasto arenato e incagliato nel Mare di Weddell, da qualche mese ha ripreso a galleggiare trasportato dalle correnti antartiche e andrà a fondersi nell’Atlantico meridionale. In codice è A23a, è un’isola di ghiaccio di 4.000 km2, quasi 4 volte la superfice di Roma, e lo spessore di 400 metri.
Ma nel solo 2019, nel solo tratto di mare sulle coste di Terranova e Labrador ribattezzato “Iceberg Alley”, è stato monitorato il passaggio di circa 1.500 iceberg di varie dimensioni dopo i loro distacchi dai ghiacciai della Groenlandia e dall’Artico canadese, nel 2020 se ne sono aggiunti altri 169, nel 2022 ancora 58, e questi giganteschi iceberg girovaghi perdono tra i 1.450 e 2.000 km3 di ghiaccio all’anno con conseguenze sull’ecosistema, sulla circolazione delle possenti correnti oceaniche che mitigano il clima, sulla vita biologica, sul rialzo del livello del mare che impatta anche sulle nostre coste dove si prevedono aumenti di livello tra gli 80 centimetri e un metro entro il 2100 ma con problemi già tra il 2030 e il 2050. Non sono buone notizie. E a Dubai basterebbe aprire questo capitolo del libro del clima con modifiche radicali dei candidi panorami del Novecento.
Quanti ghiacciai ci restano? II report 2023 “State of the Cryosphere dell’International Cryosphere Climate Initiative”, indica il loro scioglimento a ritmi record dal 2000 con il ritiro globale dei 217.175 ghiacciai del mondo con perdite complessive annue da 267 miliardi di tonnellate di ghiaccio, una quantità teoricamente sufficiente a sommergere l’intera Svizzera sotto sei metri d’acqua.
Ma si sciolgono più velocemente non solo i ghiacci dell’Alaska e dell’Islanda, anche quelli delle nostre Alpi che vedono accorciarsi o sparire lingue glaciali, circhi, crinali, permafrost, superfici ghiacciate e nevose. Lo stress termico produce livelli di scioglimenti che spiazzano i glaciologi che avevano collocato questa fase al 2070 nelle loro proiezioni di fine Novecento, non certo al 2023.
L’accelerazione ha eroso milioni di anni di costruzioni di ghiacciai. Dal 20 agosto al 10 settembre 2023, l’ultima spedizione della “Carovana dei Ghiacciai” di Legambiente con partner scientifico il Comitato Glaciologico Italiano, ha verificato impressionanti perdite dei nostri storici “giganti bianchi”: il ghiacciaio valdostano del Rutor ha perso superfici per circa 1,5 km2; il ghiacciaio piemontese del Belvedere si è ridotto del 20% perdendo 60 metri di spessore; il ghiacciaio lombardo di Dosdè Est si è ritirato di oltre 1 km con il 47% della sua superficie fusa alla media di 1,6 ettari all’anno; il ghiacciaio del Mandrone del Trentino-Alto Adige dell’Adamello dal 2015 ha perso 50 ettari pari a 70 campi da calcio.
Il confronto con le foto in bianco e nero del secolo scorso è impietoso. Il bosco colonizza suoli un tempo perennemente gelati, e la pietra nuda affiora dove c’era il ghiacciaio. E il rapido ritirarsi di fronti glaciali non è solo perdita di panorami e paesaggi emozionanti oltreché di importanti riserve di acqua dolce e di economie legate alla neve. Il degrado causa instabilità sui versanti e mette in allarme la Protezione Civile per rischi di frane e slavine, come si è visto sulla Marmolada nel tragico 3 luglio del 2022 con il crollo di seracco del ghiacciaio di Punta Rocca che provocò la valanga da 63.300 m3, con 11 morti. I versanti senza ghiacci diventano pareti anche instabili e franose. Oggi, il “Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani”, curato dall’Università degli Studi di Milano e dal Cnr, elenca 903 frammenti di corpi glaciali con 369 km2 di ghiacci, e le ultime tre campagne glaciologiche 2021, 2022 e 2023 hanno verificato scioglimenti record. E più fondono più indicano l’urgenza di reagire.
L’ultimo appello ai negoziatori arriva anche da Papa Francesco che per motivi di salute non ha potuto partecipare. Ma il pontefice che favorì lo sprint finale per la firma dell’accordo di Parigi del 15 dicembre del 2015, proverà comunque ad entrare nel vivo di un negoziato paralizzato da 8 anni di veti incrociati e desolanti insensibilità, per rimettere sui binari giusti la madre di tutte le battaglie. Tanto più urgente anche per gli effetti sulle nostre paure, come rileva l’ultimo Rapporto Censis presentato con l’84% degli italiani terrorizzati dagli effetti del “clima impazzito” e il 73,4% che teme una crisi economica e sociale molto grave con povertà diffusa e violenza per l’arrivo di milioni di persone in fuga da guerre o per effetto del cambiamento climatico.