Un documento rilasciato nel marzo del 2019 regola l’adattamento del corpo dei Marines per aumentare l’operatività nel teatro del pacifico, dove si presume avverrà il prossimo grande scontro militare per gli Usa. Ma non tutti sono d’accordo
Quattro anni fa, la National Defense Strategy del Pentagono identificava nella Repubblica Popolare Cinese la principale rivale degli Stati Uniti sul piano globale. Per rispondere all’emergere di questa minaccia, il corpo dei Marines ha deciso di riformarsi, rendendosi più adatto a realizzare operazioni militari all’interno del teatro indo-pacifico. Le logiche di questa riorganizzazione sono state delineate nel documento noto come “Force Design 2030” presentato dall’allora comandante del corpo (il generale David H. Berger) a pochi mesi di distanza dalla National Defense Strategy: entro il 2030 chiuderanno i battenti i battaglioni di law enforcement e quelli corazzati. I battaglioni di fanteria saranno ridotti da 24 a 21, le batterie di artiglieria pesante da 21 a 5, mentre le compagnie di veicoli anfibi da sei a quattro. I risparmi dei tagli saranno reinvestiti per capacità necessarie al confronto con la Cina, così da creare una sorta di forza di spedizione navale rapida con compiti precisi e ben più limitati della versione pre-riforma.
Una trasformazione non esente da contrasti, con una fazione che sostiene la beneficità di questo cambiamento e una che invece lo considera snaturalizzante. Il segretario alla Difesa Lloyd Austin, ha lodato lo “sforzo di trasformazione” dei Marines e la loro disponibilità a fare compromessi difficili “per scoraggiare la prossima guerra”, rientra nella prima categoria. In generale, i funzionari del Dipartimento della Difesa che sostengono il cambiamento sostengono che la crescita militare cinese è così avanzata che il Pentagono deve spostare la sua attenzione per evitare che Pechino emerga come potenza dominante in Asia orientale.
Mentre i detrattori di questa trasformazione sottolineano l’incapacità di prevedere quale sarà il prossimo teatro delle operazioni, e che rimodellando il corpo dei Marines sulla base delle caratteristiche dell’Indo Pacifico si infici la sua capacità operativa generale. Per dirla con le parole del senatore repubblicano dell’Alaska Dan Sullivan “La mia più grande preoccupazione è che questo trasformi il Corpo dei Marines in una forza di nicchia a scapito della sua capacità di risposta globale”.
Anche ex-ufficiali del Corpo prendono le distanze dal processo di adattamento in corso, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal. Come il tenente colonnello Scott Moore, che ha raccontato come i giochi di ruolo a cui ha partecipato in qualità di senior analyst presso il Wargaming Center della base dei Marines a Quantico per testare il nuovo progetto si basavano su alcune ipotesi incontestabili. Tra queste, quella che i Marines non avrebbero avuto difficoltà a dispiegarsi su isole remote prima di un conflitto e che sarebbero stati adeguatamente riforniti di carburante, munizioni, pezzi di ricambio e forniture mediche quando fossero scoppiati i combattimenti. Mentre l’ex comandante generale della First Marine Expeditionary Force, il tenente generale George Smith, ha inviato una valutazione classificata nell’aprile del 2022, avvertendo che la riduzione degli aerei, dell’artiglieria e delle capacità logistiche avrebbe portato allo “sfilacciamento del tessuto” della task force di quasi 50.000 uomini, secondo quanto riferito ai media italiani da persone che hanno familiarità con il documento. Questo, scriveva, avrebbe ostacolato la capacità della forza di addestrarsi ed eseguire operazioni su larga scala, ad armi combinate, contro potenziali avversari in tutto il mondo.
Il nuovo comandante del corpo dei Marines, il generale Eric Smith, si colloca nel mezzo, dichiarando di essere pronto a fare un passo indietro su potenzialmente tutte le riforme, purché questo passo indietro sia giustificato da simulazioni e dati oggettivi.