Nel cluster di accademici e ricercatori sulla marginalità educativa si profila una novità, e riguarda la scelta, sempre più chiara negli ultimi anni, di aggiungere finalmente alla definizione di povertà formativa l’aggettivo “digitale”. Nell’ultimo decennio il nodo più scottante è la possibile anticipazione dei rischi di esclusione, ma anche di saturazione, che precedono l’ingresso a scuola. L’analisi di Mario Morcellini, professore emerito presso la Sapienza Università di Roma
È arrivato l’appuntamento con i dati annuali sulla povertà forniti dalla Caritas e, pochi giorni prima, da Save the Children. Colpisce anzitutto una doppia sintonia: parlare non solo agli addetti ai lavori e aggiornare l’impatto dei dati oggettivamente crudi sulla povertà economica, letti nella loro proiezione al futuro.
Essi implicano una riflessione centrata sulla governance ma ancor più sulle élite dirigenti del Paese, a partire da quelle della cultura e dei media. Quasi tutti in realtà mostrano una percezione e un impegno insufficienti.
I dati sono rivelatori del passaggio d’epoca ma, in questo campo, assurgono quasi a “previsione sociale”; Caritas ci ha insegnato da tempo che l’uscita dalla povertà è possibile nel ciclo di diverse generazioni.
Nel centenario della nascita, Don Lorenzo Milani ha costruito su questo tema la sua rivoluzione educativa, spendendo la sua vita a sostegno della scuola, ispirandosi alla Dottrina sociale cristiana e alla Costituzione. Lo scenario va poi letto come rischio di una ridotta coesione già oggi a dura prova, determinando dunque disinteresse per la partecipazione.
È un contesto che mette in discussione gli indirizzi politici del passato poiché il nodo è relativo alle priorità di investimento di un Paese. Non destinare adeguate e nuove risorse alla scuola alimenterebbe nel tempo quella che lo studioso francese Yves Mény ha chiamato “disagio democratico”.
Qual è allora la radicalità che proviene da queste indagini (a cui aggiungiamo quella di We are social), che hanno il vantaggio di molti aspetti consonanti? Non sono i dati la sorpresa: chi li studia longitudinalmente non si stupisce dell’incremento della povertà.
Più importante è “un’operazione verità”, per di più con una colorazione da campagna sociale, che allarga la denuncia e favorisce dunque una diversa economia dell’attenzione.
La battaglia non è solo istituzionale o politica; si declina nei termini di una convinta apologia della solidarietà, nell’obiettivo storico di salvare il maggior numero di nuovi venuti dall’esclusione culturale, che prepara rinuncia e afasia in termini di cittadinanza. Si può aggiungere che le radici dell’astensionismo politico si alimentano proprio qui.
È doveroso in proposito richiamare una fantastica osservazione dello studioso Richard Hoggart il quale, poco più di mezzo secolo fa, così si esprimeva: le catene della subordinazione culturale sono più difficili da individuare, e dunque da superare, della stessa subordinazione economica. Assunti come questi lanciano l’idea che la lotta alla povertà formativa fa parte del processo di costruzione dell’identità collettiva di un popolo. È dunque un indicatore di terzietà rispetto alle politiche.
Ma si profila una novità nel cluster non certo affollato di accademici e ricercatori sulla marginalità educativa e riguarda la scelta, sempre più chiara negli ultimi anni, di aggiungere finalmente alla definizione di povertà formativa l’aggettivo “digitale”.
Nell’ultimo decennio il nodo più scottante dei dati è la possibile anticipazione dei rischi di esclusione (ma anche di saturazione) prima dell’ingresso a scuola. Una fascinazione così avvincente nei bambini verso smartphone e tablet diventa una precoce socializzazione cui il bambino si sottopone, costituendosi così come prima forma di costruzione della mente in un’età in cui lo sviluppo delle facoltà cognitive è tutt’altro che compiuto.
Già nel primo anno di vita, secondo l’Istituto superiore di Sanità, il 22% dei bambini passa davanti a uno schermo almeno un’ora al giorno; una percentuale che arriva al 58% già nel secondo anno di vita. Non sorprende allora che in Italia siano sorti 87 Centri territoriali per il sostegno contro l’uso eccessivo di device.
Ad essi si rivolge quasi il 30% di bambini e giovani tra 0 e 17 anni. Come non parlare allora di una vera e propria “dipendenza digitale”? Un dato ha sempre accompagnato la storia degli uomini: l’istituzione educativa come prima forma di iniziazione sociale. Siamo certi che un cambiamento così radicale sia senza conseguenze per il valore percepito della scuola?