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Il film di una vita raccontato dallo scrittore Giuseppe Fiori

Di Giuseppe Fiori

Alla fine dell’anno solare molti di noi pensano segretamente al bilancio della propria vita. Lo scrittore Giuseppe Fiori, giallista e saggista, riflettendo sullo scorrere della vita e quello della pellicola, firma un racconto apologo che sarebbe piaciuto al Ramón Gómez de la Serna di “Cinelandia”

Quando una vita lentamente scorre da un secolo all’altro è inevitabile che le esperienze vissute abbiano tratti, a dir poco, disomogenei. Come un romanzo troppo lungo che arricchisce la trama anziché dipanarla.

È capitato ai miei nonni, tra Ottocento e Novecento, passati dal calesse all’auto, dalla pace alla Grande Guerra, e capita a me, venuto al mondo nel bel mezzo della II guerra mondiale e approdato negli anni dell’Intelligenza Artificiale senza che le ombre lunghe del secolo passato siano del tutto svanite. Non trascurando (e come potrei?) il fatto di aver vissuto il più lungo periodo di pace in Europa per arrivare, nel nuovo secolo, al rischio concreto del pericolo atomico.

I grandi eventi incidono certo sulla vita di tutti noi, ma ci ostiniamo a pensare che il pulviscolo della nostra breve storia rimanga comunque sospeso nel Tempo, magari nella memoria di quei pochi o molti che condividono la nostra inesprimibile illusione.

Come se di per sé una vita, una semplice vita, potesse esprimere una luccicanza debole e continua quanto più ci si allontana da essa, fino a rimanere un improbabile puntino luminoso sul grande schermo del cielo notturno. Un attimo prima – ma quanto può essere lungo un attimo – eravamo noi a guardare quello schermo, immaginando altre esistenze passate e future, vivendo la complessità e la bellezza del reale, una storia dopo l’altra, un film dopo l’altro. Da protagonisti o da comparse, e più spesso da spettatori storditi.

Certo la vita non è come un film – difficilmente può concludersi con un happy end – ma ugualmente vorremmo che gli somigliasse almeno un po’ per goderla nella sua interezza e per rappresentarla con una struttura sufficientemente coerente e compatta. Perfino provvista di un significato.

E nel momento in cui la trama non riserva più sorprese e si avvia al finale, proprio allora nasce il desiderio di rivedere quel film, che non è affatto come rivivere la vita, ma è pur sempre uno spettacolo che può riservare qualche intensa emozione sfuggita durante la prima visione.
Forse la seconda volta potremmo operare qualche taglio, inserire scene andate perdute, insomma scrivere finalmente un film leggero e vero come la vita, su ciò che è accaduto, immaginando anche ciò che sarebbe potuto altrimenti accadere (altrimenti è un avverbio particolarmente intrigante, perché suggerisce una soluzione alternativa sia in relazione a un nostro comportamento, sia a un accadimento estraneo; soprattutto allude a un’eventualità, anche immaginaria, e al nostro interesse non solo per le cose come sono ma anche per come potrebbero altrimenti essere).

Per la seconda volta vale soltanto il racconto, ripassare la trama del film di una vita dopo la vita, parole e immagini dopo pensieri e azioni… niente di più diverso e, probabilmente, niente di più uguale.

Con quest’ultima curiosità mi siedo al buio, in mezzo agli altri, su una sedia di legno scuro nelle prime file di un cinema di terza visione proprio come facevamo da ragazzi, e improvvisamente lo schermo s’illumina. Inizia, lentamente, quell’avanzare di ritorno (di incerto gergo marinaresco) che sembra riportarci laddove siamo partiti tanto tempo fa, anche se siamo inchiodati allo stesso posto, con la stessa buona compagnia.

Il fatto è che il racconto – non solo cinematografico ovviamente – riesce quasi sempre a disporre i materiali più svariati e caotici delle nostre vite in una prospettiva di senso che non ci saremmo aspettati.

Certo a tutti noi vengono in mente le varie vicende vissute e con esse una sconfinata aneddotica individuale, uno sguardo da vicino su cui abbiamo indugiato ricordandone i diversi contorni a seconda di chi prestava orecchio ai nostri reiterati racconti.

Ma c’è stato un momento, già in là con gli anni, in cui il particolare tendeva ad assumere una prospettiva più grande: era lo sguardo da lontano – si direbbe con un telescopio – che trasformava l’aneddoto in un simbolo, una sorta di metamorfosi delle storie, che, continuamente ripetute con le necessarie varianti, hanno disegnato il profilo di alcuni aspetti del nostro essere, forse quelli più evidenti, magari quelli più poliedrici.

E, nel mio caso, allontanando ancor più lo sguardo, ho visto comporsi i tratti, uno dopo l’altro, dell’autobiografia di un narratore. Come se dovesse diventare un film, tanto leggero e vero da sembrare una semplice vita. Così tanto sincero da svelarne l’intima essenza?

Italo Calvino, nell’ultima delle sue Lezioni americane che scrisse proprio in vista dell’attuale millennio (lui se lo poteva permettere), la lezione sulla «Molteplicità», sembra allontanarsi dalla pulsione della “scoperta della propria verità” con la risposta alla domanda: “chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”.

Tenuto anche conto che il montaggio delle varie scene avviene inevitabilmente in una fase successiva rispetto a quando sono state girate, perché questa è la peculiarità di ogni vita raccontata: quella, appunto, di confrontarsi col tempo.

Forse la vita vissuta non è poi così semplice o non l’abbiamo capita del tutto, oppure non l’abbiamo realizzata in pieno, anche se quell’unicum che è il nostro più intimo profilo riesce sempre ad emergere come in un fermo immagine. E il tentativo di esprimere proprio quell’unicum è, in definitiva, il senso che abbiamo dato alla nostra esistenza e da rivedere, magari, in un cinema che era di terza visione.


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