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Phisikk du role – Il potere, un equilibrio difficile tra hybris e bene pubblico

L’ultimo libro di Tivelli rappresenta un’opzione culturale molto netta, che sbatte la porta a-priori al dilettantismo per affermare la primazia della professionalità: non c’è spazio per i politici contemporanei, ubriachi di “immediato” e a digiuno di “senso dello Stato”, di “pensiero lungo” e di “spirito di servizio”. La recensione di Pisicchio

Gigi Tivelli, personalità esuberante e pluriversa del mondo della cultura politica, ha curato un poderoso volume sul potere, uscito da qualche giorno per i tipi di Rai Libri, “I segreti del Potere. Le voci del Silenzio”, un libro di dialoghi, più che di interviste dove, miracolosamente, l’imprinting del dialogante (lo stesso curatore) non sovrasta gli argomenti dell’intervistato.
La stessa scelta dei protagonisti, 14 voci della vita pubblica italiana degli ultimi decenni: grand commis della burocrazia, accademici, autorevoli osservatori dei fenomeni sociali, servitori dello Stato a vario titolo, nessun politico politicante, tutti, però accomunati da un elemento esperienziale riconosciuto, rappresenta in sé una opzione culturale molto netta, che sbatte la porta a-priori al dilettantismo per affermare la primazia della professionalità.
Per questo, sembra dire Tivelli, non c’è spazio per i politici contemporanei, ubriachi di “immediato” e a digiuno di “senso dello Stato”, di “pensiero lungo” e di “spirito di servizio” ( come dicevano una volta i democristiani, fino a quando Martinazzoli spiegò ai tardi epigoni di quella grande esperienza che “servire la Repubblica” non andava inteso nella forma riflessiva del “servirsi”).
Perché servire lo Stato significa innanzitutto saper mantenere un equilibrio difficile sopra alla follia della hybris, la tracotanza del sentirsi sopra alla legge che gli antichi greci avevano già catalogato in un contesto mitologico e che la psicanalisi (inglese) ha usato per descrivere una patologia che si accompagna soventemente all’ascesa al potere dei nuovi politici, soggiogati dalla sindrome dell’autoreferenza e dalla pervasività dei social. Dunque la platea scelta dall’autore è più collaudata, matura ed usa pensieri complessi e non semplifica con lo schema binario di tik tok.
E, in fondo, si afferma come un’atlante della nuova Italia, all’altezza del primo ventitreennio del nuovo secolo, che viene a comporsi, come un quadro di Boetti, colorato e asimmetrico, in un unicum ricco di interrelazioni e di rimandi. Le chiavi interpretative sono da ricercare, dunque, nei comandamenti del grand commis (e degli accademici e capiscuola intervistati) che hanno a che fare con la schiena dritta, l’indipendenza, il senso del sacrificio, spicchi di umanità, studio e aggiornamento in chiave multidisciplinare e aperta agli orizzonti internazionali.
In questo spazio di rigore contaminato, però, da un sentimento empatico verso i più deboli, personalità come DeRita, il “Grande Vecchio” dell’indagine sociologica italiana, capace di una lucidità analitica rara, insieme a Savona, Patuelli, Ajala, Quintieri, Massolo, Cerrina Feroni, Leo (unica eccezione all’assenza dei politici), Malagò, Malinconico, Tricarico, Palomba, Sandulli, Fiorentino, il compianto Maccanico, raccontano di una visione dello Stato in cui il merito prevale sulla clientela, la competenza sull’appartenenza, l’interesse superiore sul “particulare” di casa propria.
In fondo si tratta di un esegesi della Costituzione. In particolare dell’articolo 54, secondo comma, uno dei più banalizzati dall’inconsapevolezza, dove si dicono, invece, cose importanti. Si dice che i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con “disciplina e onore”.
Che vuol dire, oltre la facile vulgata dell’articolo messo lì con un valore esornativo per evocare l’onorabilità necessaria dei pubblici ufficiali? Occorre per capirlo meglio una piccola risalita etimologica: disciplina in latino viene da “discere” che vuol dire imparare ma anche restituire ciò che si è imparato attraverso l’insegnamento.
Vuol dire, insomma, che la Costituzione pone per il pubblico ufficiale un obbligo di competenza. Per il burocrate la competenza viene puntualmente verificata dalle procedure concorsuali pubbliche. Per il politico, anch’esso pubblico ufficiale, no.
Una volta c’erano i partiti a svolgere questo ruolo formativo e poi c’era la commissione d’esame formata dal corpo elettorale con il voto di preferenza. Oggi non più. E forse questo spiega la ragione per cui Tivelli ha scelto accuratamente intervistati con alle spalle solide storie e nessun late comer della politica.
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