I due non erano fatti per piacersi. Ma l’apertura del leader Dc verso i comunisti non si discostava dalla strategia della distensione avviata da Nixon verso Cina e Unione Sovietica. Il commento di Giuseppe De Tomaso
Chi aveva frequentato da vicino Aldo Moro (1916-1978) seguendolo anche in qualche trasferta negli Usa, raccontava che il leader dc ucciso dalle Br propendeva, in America, più per il partito repubblicano che per i democratici. Raccontava anche che, in occasione delle presidenziali d’oltre oceano, Moro caldeggiasse con eleganza, presso la comunità italiana, l’appoggio al candidato conservatore anziché al competitore progressista. Il motivo? Secondo Moro i democratici erano più bellicosi dei repubblicani, che in politica estera erano più predisposti a utilizzare l’arma della diplomazia. E siccome lui, Moro, era un uomo di pace, la sua attenzione benevola non poteva non riversarsi sul partito che fu di Abraham Lincoln (1809-1865).
In effetti, la storia dava ragione a Moro. Un caso su tutti. Furono i democratici John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) e Lyndon Johnson (1908-1973) a cacciarsi nel pantano del Vietnam, alimentando un terribile conflitto militare cui porrà fine il repubblicano Richard Nixon (1913-1994) coadiuvato dal suo braccio destro Henry Kissinger (1923-2023).
Eppure proprio i contatti con Kissinger agiteranno non poco le giornate di Moro. I due non sono fatti per intendersi. Tanto il primo è diretto e spicciativo. Tanto il secondo è delicato e riflessivo. Per soprammercato tra i due dev’essere incubata un’inarrestabile rivalità accademica. E si sa, quando due docenti universitari, due uomini di cultura, cominciano a duellare sul serio, sia pure con i concetti, il più delle volte non c’è verso di siglare un compromesso. L’orgoglio intellettuale non consente a nessuno dei due di cedere o concedere qualcosa. L’aspro Kissinger, in virtù del peso politico-economico-militare degli States, farà pesare la sua condizione di forza arrivando, pare, addirittura a prospettare a Moro pesanti conseguenze qualora la Dc italiana avesse avvicinato i comunisti all’area di governo.
Probabilmente, l’ostentata ostilità kissingeriana nei confronti della linea politica morotea era corroborata dal fatto che lo statista di Maglie coltivava un buon rapporto personale con il presidente Nixon. E il fattore gelosia riveste spesso un ruolo essenziale nelle relazioni tra gli esseri umani, specie tra quelli che hanno più potere decisionale. Temere di essere scavalcato nei legami con il titolare della Casa Bianca non doveva essere il massimo per il possessivo segretario di Stato. E comunque.
Sta di fatto, però, che l’apertura di Moro al Pci avrebbe dovuto sembrare tutt’altro che stravagante e pericolosa agli occhi del realista Nixon e, a ben guardare, del teorico del realismo politico, ossia di Kissinger medesimo. Che cosa era, in fondo, la strategia dell’attenzione nei confronti del partito guidato da Enrico Berlinguer (1922-1984) se non la riproduzione, su scala nazionale, della politica distensiva avviata dagli Stati Uniti, su scala globale, nei riguardi di Unione Sovietica e Cina? Ed ancora: se con l’apertura alla Cina comunista, Nixon e Kissinger avevano ottenuto il risultato di dividere le due potenze mondiali accomunate dall’ideologia marxista, con l’apertura ai comunisti italiani Moro avrebbe parallelamente favorito la rottura tra i comunisti dell’Ovest e i comunisti dell’Est, tra i partiti eurocomunisti e i regimi del Patto di Varsavia. Non a caso, la figura di Moro era assai osteggiata dai capi dell’Unione Sovietica, così come fu osteggiata la figura di Berlinguer che, per miracolo, si era salvato a Sofia (1973) da un attentato quasi certamente organizzato dai servizi segreti bulgari, i più ligi ai desideri di Mosca.
Insomma. Moro non era un kamikaze. Né un ingenuo. Se aveva dato un colpo di acceleratore al processo teso a realizzare la democrazia compiuta in Italia, lo aveva fatto a ragion veduta, cioè con la consapevolezza di assecondare, a livello più ristretto, gli sviluppi distensivi dell’evoluzione geopolitica planetaria. Del resto, le aperture morotee al Pci non erano a senso unico. Il 15 giugno 1976 il Corriere della Sera pubblicò un’intervista, da parte di Giampaolo Pansa (1935-2020) al segretario comunista, destinata a finire sui libri di storia. In quell’intervista Berlinguer confessava che si sarebbe sentito assai più sicuro sotto l’ombrello della Nato, anziché sotto altre protezioni. Per la nomenklatura del Cremlino quelle parole dovettero provocare un dolore più lancinante di un pugno nell’occhio. Tanto è vero che a Mosca non rimasero a guardare, reagirono e agirono pesantemente per sabotare il tentativo di Moro (e di Berlinguer).
Quando Moro viene rapito dalle Br, i cui rapporti con il deep State dell’Impero Rosso hanno lasciato più di una traccia, Nixon e Kissinger non hanno più responsabilità di governo in America. Comanda il democratico Jimmy Carter, il presidente dei diritti civili, l’anti-realista, l’anti-machiavellico per eccellenza. Carter non fa nulla per cercare di liberare il prigioniero Moro dalle mani dei terroristi. Anzi, l’impressione è che, sotto sotto, sia a Washington sia a Mosca convenga che l’ostaggio venga lasciato a un tragico destino, perché non funzionale ai loro rispettivi disegni. Rispuntano in quella circostanza le cronache sui colloqui tutt’altro che affabili, svoltisi anni prima, tra Kissinger e Moro, oltre alle inevitabili dietrologie sul (presunto) ruolo che successivamente avrebbe esercitato Kissinger in persona nel boicottare tutti gli sforzi per salvare il presidente della Dc.
E però, nel 1978, Kissinger era fuori da un pezzo dal cerchio magico della Casa Bianca. Né i nuovi governanti Usa, a iniziare da Carter, erano particolarmente vicini al politico-politologo ebreo-tedesco-americano. Probabilmente, e paradossalmente, al Moro rapito avrebbe fatto comodo, in quei 55 giorni nel covo delle Br, un presidente come Nixon che, diversamente da Kissinger, apprezzava assai la lucidità e la lungimiranza del leader italiano, e che forse avrebbe dato l’indicazione, ai suoi 007, di osare di più per sottrarlo a una fine crudele. Ma i se, inutile ripeterlo, non fanno mai storia.
L’unica cosa certa è che Moro e Kissinger non erano fatti per piacersi o per andare insieme in vacanza. Le loro divergenze parallele, le loro incompatibilità caratteriali, erano proverbiali. Il che non faceva di Moro un anti-americano, o un anti-atlantico, visto che la sua politica di inclusione del Pci nel gioco democratico, con relativi effetti dirompenti nel monolite sovietico, era coassiale alla strategia della distensione avviata dalla presidenza Nixon in direzione di Urss e Cina, con l’effetto collaterale del divide et impera.