Lasciata fuori la crescita, l’accordo si concentra sulle regole di bilancio, fondamentali per assicurare la stabilità dei prezzi e l’equilibrio dei conti pubblici. Ma rimandando al futuro le iniziative a sostegno di obiettivi comuni e lasciando gli obiettivi di medio e lungo periodo sulla fiscalità comune ancora una volta fuori dall’agenda europea. Il che, come ha ricordato recentemente Mario Draghi, lascia l’Unione come un’anatra zoppa. Il commento di Michele Bagella, economista del Gruppo dei 20 e docente a Tor Vergata
Sembrava che si arrivasse a un rinvio. Invece, contrariamente alle previsioni, i capi di governo hanno trovato l’accordo sul nuovo Patto di stabilità. Anche se non è stato ancora diffuso un documento ufficiale, sono note alcune novità che sarebbero state approvate. Tra queste spiccano il maggior potere della Commissione in materia di controlli sulla sostenibilità del debito pubblico, la considerazione speciale (non sono chiare le modalità di applicazione) per i prossimi tre anni, fino al 2027 ai fini del calcolo del tasso del debito sul Pil e sul deficit di bilancio, degli investimenti in materia di difesa e di sostenibilità ambientale, previsti dal Pnrr, ivi compresi gli interessi sul debito che hanno generato.
Il dibattito, aperto dalle anticipazioni di stampa, contiene commenti critici di vario tipo, non limitati all’aspetto tecnico, che provengono da destra e sinistra degli schieramenti politici, non solo in Italia. Si cominciano a fare le classifiche su chi ha vinto e perso tra gli Stati. Su chi ha acquisito peso e potere, su chi l’ha perso. Sul piano dei contenuti, si discute di percentuali, di tendenze, di coerenze con gli obiettivi, ma c’è preliminarmente da osservare che l’accordo non contiene alcuna iniziativa a favore della crescita, nonostante essa faccia parte della denominazione dello stesso Patto.
La delusione da parte di coloro che si aspettavano che, dopo il Next Generation Ue, la revisione dei parametri stabiliti dal Trattato di Maastricht offrisse l’occasione per far fare all’Unione Europea un passo in avanti verso forme di fiscalità volte a sostenere gli obiettivi comuni di crescita e di sicurezza, è stata grande. Il debito comune europeo introdotto dal Ngu sembrava che fosse il modello di riferimento. Così non è stato. Nella gran parte dei commenti che tentano di indagare sui molti perché di questo mancato passo in avanti, c’è il solito richiamo allo schieramento dei paesi frugali contrapposto agli altri Paesi (spendaccioni?).
Ed è noto che dietro questi aggettivi qualificativi si nascondono due visioni della politica economica diverse e contrastanti. La prima vede nel debito pubblico una sottrazione di risorse all’iniziativa privata. La seconda vede i limiti di quest’ultima e sostiene il ruolo supplente dello Stato nell’economia. Sembrava che l’aggressione russa all’Ucraina e la fragilità europea in materia di difesa, avesse scosso a sufficienza la volontà dei governi europei di procedere a un’accelerazione della politica d’integrazione, come dopo la pandemia.
Sembrava, cioè, che fosse giunta l’occasione per introdurre misure di rafforzamento della difesa, che andassero oltre lo storno dal deficit di bilancio delle spese sostenute per fornire armamenti all’Ucraina, o la destinazione del 2% del Pil alle spese per la difesa nazionale. Si pensava a un obiettivo più ambizioso, rafforzare ed estendere lo sviluppo e la collaborazione tra le imprese della difesa dell’Unione, sostenuto da risorse comuni. Ed è singolare che siano proprio i paesi più esposti al revanscismo bellico russo quelli più restii ad andare in questa direzione.
Neanche la transizione energetica e la lotta al climate change, divenute le mosche cocchiere della politica economica, sono state sufficienti a generare novità fiscali. Chi si aspettava qualche misura tipo l’inflation Reduction Act, la legge americana che fornisce finanziamenti alle imprese che desiderano investire in impianti green sul territorio americano, è rimasto ancora una volta deluso. La Commissione avrebbe potuto proporre qualcosa di simile a un Fondo per la crescita delle imprese europee, attingendo anche a risorse prese a prestito sul mercato. Così non è stato.
Lasciata fuori la crescita, l’accordo, come detto, si concentra sulle regole di bilancio, fondamentali per assicurare la stabilità dei prezzi e l’equilibrio dei conti pubblici. Rimandando al futuro le iniziative a sostegno di obiettivi comuni, rischia però di rendere più complicato per i paesi ad alto debito, come l’Italia, rispettarle. Vale a dire che il ritorno del Consiglio europeo al vecchio metodo “di procedere per piccoli passi” lascia gli obiettivi di medio e lungo periodo sulla fiscalità comune ancora una volta fuori dall’agenda europea. Il che, come ha ricordato recentemente Mario Draghi, lascia l’Unione come un’anatra zoppa.