All’Italia serve una grand strategy nazionale che accorpi i vari progetti strategici settoriali, e nel caso dell’Africa il fulcro può essere l’industria, a cui agganciare l’organizzazione, la distinzione e gli strumenti di cooperazione delle politiche che comporranno il Piano Mattei. L’analisi di Pietro Baldelli, PhD Uni. Perugia, analista per geopolitica.info
Il rinnovato contesto di instabilità internazionale richiederà nei prossimi anni alle medie potenze come l’Italia, incardinate in una chiara cornice di alleanze, di aumentare il proprio attivismo sul piano internazionale. Il Piano Mattei si inserisce in questo contesto come una prima iniziativa da cui poter strutturare una proiezione internazionale diversa rispetto al passato per il Paese, che in termini più generali, per poter cogliere le opportunità e affrontare adeguatamente le minacce, dovrà dotarsi di un rinnovato “spirito caovuriano” in campo internazionale, fatto di attivismo e creatività.
Per far questo sarà necessario anzitutto affiancare a strategie di tipo funzionale o settoriale – il Piano Mattei così come altre recenti iniziative, penso al “Piano del Mare” – una bussola di riferimento di ultima istanza che garantisca verticalità strategica a tanti progetti che fino a questo momento si parlano solo sul piano orizzontale. In altre parole, serve fare un passo in avanti ulteriore, verso la costruzione di una vera e propria “grand strategy nazionale” che possa dare logicità e coordinamento alle diverse strategie settoriali, e possa rendere l’Italia un attore riconoscibile sul piano internazionale agli occhi tanto dei propri partner quanto di attori ostili, in quanto a interessi, strumenti, vincoli e obiettivi della propria azione internazionale.
Per quanto riguarda la strategia africana dell’Italia – appunto il Piano Mattei – prima di riflettere sugli strumenti e le risorse da mettere in campo è necessario prendere consapevolezza su quale sia il contesto in cui si andrà ad operare. Il continente africano, come l’intero sistema internazionale, sta oggi lentamente scivolando verso la logica della competizione tra grandi potenze, che si è riaffermata con forza negli ultimi anni come non succedeva dalla fine della guerra fredda. Si tratta di un nuovo paradigma interpretativo attraverso cui guardare alla realtà internazionale di oggi e dei prossimi decenni, fattore che assommerà a criticità endogene proprie dei singoli quadranti regionali – come quello africano – un quoziente di instabilità ulteriore legato a variabili esogene. Si pensi a quanto i fattori esogeni stiano alimentando focolai di instabilità in Paesi colpiti nell’ultimo triennio da colpi di Stato (8 in 7 diversi Stati africani) a cui si aggiungono Paesi in cui nelle ultime settimane si sono verificate tensioni rilevanti, come in Guinea-Bissau e in Sierra Leone.
Una seconda consapevolezza con cui si deve andare ad operare ha a che fare con la natura gradualmente sempre più conflittuale delle relazioni economiche tra Stati. La dimensione dell’economia si è ormai affermata come frontiera della competizione tra attori, con una progressiva estensione del regno della sicurezza economica e delle azioni di natura coercitiva. Se interpretata sotto questa nuova luce, anche una maggiore presenza di matrice geo-economica dell’Italia in Africa sarà soggetta a elementi di contestazione e frizione da parte di Paesi con strategie potenzialmente divergenti, che devono essere preventivamente considerate.
Alla luce di quanto affermato, ad un livello operativo un piano di rilancio della presenza italiana in Africa non può limitarsi a investire nella dimensione della cooperazione allo sviluppo, ma deve pensare come suo perno la dimensione industriale. Azioni, progetti e iniziative su temi come le infrastrutture, la transizione energetica, l’approvvigionamento di risorse e l’occupazione non può che trovare nella dimensione industriale la sua ragion d’essere intorno alla quale ruotare. Assunta questa prospettiva, anche un altro dossier centrale come quello delle migrazioni dovrà inevitabilmente subire un ripensamento concettuale. Si deve iniziare un investimento graduale sulla popolazione dei Paesi africani intesa non più solamente come fonte di alimentazione di flussi migratori diretti verso l’Europa, ma anzitutto come bacino su cui lavorare per la costruzione del capitale umano del futuro, da impiegare anzitutto nei Paesi d’origine. In questo senso, dovrà essere pensato un ruolo centrale di mondi alternativi rispetto a quelli che abitualmente si occupano di migrazioni: il mondo della formazione, dell’istruzione, dell’università, della ricerca e infine quello delle imprese dovranno giocare un ruolo decisivo su questo fronte.
Basandoci su quanto detto fino ad ora, si può ritenere prioritario focalizzarsi su tre tipi di intervento. Primo, sarà necessaria un’operazione di riorganizzazione razionalizzante dei settori di intervento elencati al comma 2 articolo 1 del DL 161, pensando a un’architettura tridimensionale basata sui seguenti pilastri: cooperazione allo sviluppo, industria, migrazioni (capitale umano). Ciò non vuol dire escludere alcuni settori dell’elenco, ma disporli in una scala gerarchica che eviti sprechi, sovrapposizioni e inefficienze. Secondo, in un secondo momento andrà inserito un principio di distinzione nella scelta dei Paesi in cui intervenire, come suggerito dal comma 3 del medesimo art. 1. In questo senso, vanno individuati sotto-quadranti del continente africano prioritari dal punto di vista italiano, per evitare l’effetto dispersione o, ancor peggio, overstretching. Questi potrebbero essere individuati in Nord Africa, Sahel e Corno d’Africa, nella misura in cui si decidesse di rilanciare una postura internazionale di tipo indo-mediterraneo per l’Italia. In ultima istanza, andrebbe inserito un riferimento alla cooperazione che, attraverso il Piano Mattei, l’Italia cercherà con iniziative affini di partner e alleati. In quest’ultima dimensione andrà valutata la possibilità di integrare la propria strategia africana con quella di altri attori extra-regionali che negli ultimi anni hanno aumentato il loro impegno in Africa. Penso a Paesi come la Turchia, le monarchie del Golfo e l’India. Andranno valutati preventivamente i settori di cooperazione ma anche le possibili aree di frizione con cui, nel rapportarsi con questi Paesi, l’Italia dovrà fare i conti.