Se la riforma passasse, cambierebbe il ruolo del Parlamento e sarebbe la legittimità del presidente del Consiglio ad essere messa in discussione, più che quella del Presidente della Repubblica. Luigi Daniele spiega perché
Il dibattito attorno alla riforma costituzionale del governo Meloni, fin dai primi momenti, si è sempre concentrato sugli effetti che una sua approvazione avrebbe sul Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
In effetti, sul piano politico l’intento della riforma è chiaro: creare un vincolo di derivazione immediata tra il corpo elettorale e il presidente del Consiglio, eliminando quindi la derivazione di quest’ultimo dal Parlamento (che nella Costituzione attuale lo elegge) e dal Presidente della Repubblica (che lo nomina). A causa di questo impianto, in molti, in aree vicine al governo, hanno sostenuto che, qualora la riforma passasse, il Presidente della Repubblica vedrebbe la sua figura e la sua funzione cambiare al punto da rendere necessarie le dimissioni.
A ben vedere, però, questa tesi non è molto sensata, e ciò in base alla struttura stessa della riforma Meloni e al mandato politico che ricevono le figure e le istituzioni coinvolte nella questione, nel momento in cui vengono elette.
Lasciamo da parte la considerazione banale che il Presidente, nel momento in cui viene eletto, entra in pieno possesso delle prerogative connesse al suo ruolo, nei limiti stabiliti dalla Costituzione in vigore al momento dell’elezione. È chiaro che qui non si parla di un obbligo formale, ma di una questione di opportunità e legittimità politica.
Analizziamo la situazione concreta che, in caso di approvazione della riforma, verrebbe a crearsi tra presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica. La riforma introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio, che viene indicato dall’elettorato e non più nominato dal Colle, che si limita a conferirgli l’incarico. La libertà d’azione del Presidente della Repubblica, inoltre, sarebbe più limitata in caso di crisi di governo. I rapporti tra le due figure, però, non cambiano oltre: Palazzo Chigi rimane guida del potere esecutivo, mentre il Capo dello Stato continuerà a essere al Quirinale, garante delle istituzioni. La riforma, infatti, crea un premierato e non un presidenzialismo.
Quello che cambia però radicalmente è il ruolo del Parlamento: oggi, infatti, questo elegge sia il presidente del Consiglio che il Presidente della Repubblica, mentre con la riforma Meloni si troverebbe a eleggere solo il secondo. Una limitazione delle prerogative delle Camere che, però, ha effetti anche sulla figura del capo del governo.
In caso di approvazione della riforma, infatti, Mattarella (o chi per lui) continuerebbe a trarre la sua legittimità dall’elezione del Parlamento, tanto in base al vecchio testo costituzionale quanto secondo quello modificato dal governo Meloni. Detto in altri termini: la modifica costituzionale non cambierebbe la fonte della legittimità politica del ruolo del Presidente della Repubblica.
Per il presidente del Consiglio, invece, le cose starebbero diversamente. Meloni si troverebbe ad essere eletta dal Parlamento, in un sistema in cui però la legittimità del presidente del Consiglio si basa sul corpo elettorale e non sulle Camere. In sostanza, il suo mandato politico deriverebbe da un organo che non ha (più) il potere di conferirlo.
È chiaro che anche in questo caso ciò non darebbe vita all’obbligo formale di dimettersi, ma per il capo del governo, più che per il capo dello Stato, si porrebbe un tema di legittimità politica della propria figura, visto che a quel punto si creerebbe una situazione in cui l’origine del potere del presidente del Consiglio risiederebbe nel corpo elettorale… il quale, tuttavia, non si sarebbe ancora espresso.
Se la riforma passasse, dunque, sarebbe la legittimità del presidente del Consiglio ad essere messa in discussione, più che quella del Presidente della Repubblica. Un dato rilevante tanto sul piano teorico quanto su quello politico, eppure del tutto assente nel dibattito corrente.