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Cosa si dicevano Clinton e Eltsin su Putin? Lo raccontano Lazzarini Merloni e Spiri

Di Maria Vittoria Lazzarini Merloni e Andrea Spiri

Pubblichiamo alcuni estratti dal libro “L’America di Clinton. Dalla Guerra fredda al disordine globale” (Carocci editore) di Maria Vittoria Lazzarini Merloni, laureata in Politiche europee ed internazionali all’Università Cattolica di Milano, e Andrea Spiri, dottore di ricerca in Storia politica dell’età contemporanea nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Luiss di Roma

Il 3 luglio 1991, una delegazione russa del Comitato parlamentare per la sicurezza nazionale incontra a Bruxelles il segretario generale della NATO, Manfred Wörner, e ne sollecita l’impegno verso una «graduale diminuzione degli sforzi militari» che certo aiuterebbe «le forze democratiche e coloro i quali in Russia si battono per consistenti tagli al bilancio della difesa», così da destinare maggiori risorse all’attuazione delle riforme economiche. Su questo terreno – recita un memorandum declassificato negli Archivi di Mosca – si misura il «ritardo politico» della comunità atlantica, che potrebbe essere sfruttato dalle «forze conservatrici» per «mantenere il complesso militare industriale dell’URSS e rallentare il processo di trasformazione democratica in corso». Nel futuro della NATO non si intravedono progetti di espansione territoriale, anzi l’ipotesi viene scartata «da tredici degli attuali sedici membri del Consiglio atlantico», riferisce Wörner, intento a rassicurare la controparte sul fatto che «nessuno permetterà l’isolamento dell’URSS».

Sulle prospettive dell’Alleanza atlantica, del resto, nel momento in cui la cornice storica è ancora quella della Guerra fredda, fanno fatica a ragionare pure gli americani, il dossier vede addirittura contrapporsi le posizioni della Segreteria di Stato e del Dipartimento della Difesa, come testimonia la nota redatta il 25 ottobre 1990 dall’ufficio Affari europei a Foggy Bottom (il quartiere di Washington dove ha sede il Dipartimento di Stato) per informare il National Security Council del fatto che il Pentagono suggerisca di «lasciare socchiusa la porta della NATO» ai paesi dell’Est europeo ancora formalmente inclusi nel patto di Varsavia, scontrandosi con la determinazione dello staff di James Baker a tenere la questione «fuori dall’agenda», poiché gli Stati Uniti non hanno «alcun interesse a organizzare un fronte antisovietico» lungo i confini di Mosca che finirebbe solo per «danneggiare il processo riformatore» e «invertire le tendenze positive in atto».

Di lì ad un biennio, però, la crisi dissolutiva dell’universo sovietico e la disgregazione del quadrante jugoslavo avrebbero imposto la ricerca di nuove coordinate strategiche. A fornire al presidente degli USA Bill Clinton la chiave per definire gli orientamenti di politica internazionale è un Secret report del Dipartimento di Stato del 7 settembre 1993: «È urgente articolare una visione del ruolo americano in Europa nel post-Guerra fredda e guidare il processo di trasformazione della NATO». 

I riformisti nell’Est europeo, «incapaci di mostrare i benefici che derivano dalla democrazia e dal libero mercato, rischiano la sconfitta, a vantaggio di ex comunisti o ultranazionalisti». Un’eventualità – scrive Lynn Davis, Undersecretary of State for International Security Affairs – che aprirebbe «nuovi conflitti nella regione», alimentando «instabilità», «flussi di profughi» e «condizioni di insicurezza» che si rifletterebbero negativamente sulla coesione stessa dei «nostri alleati dell’Europa occidentale». Pertanto, «la minaccia agli interessi di Washington è reale», esige il «ritorno» degli USA nel Vecchio continente, in «posizione guida»: c’è la «forte convinzione» che le «spinte riformistiche» dell’Est debbano essere «sostenute» dalla prospettiva di un ancoraggio occidentale. Certo, le ragioni della democrazia e della cooperazione in Europa potrebbero essere meglio garantite e difese da altre istituzioni (ad esempio la CSCE), che tuttavia in questo momento si dimostrano «incapaci di esercitare il loro ruolo». Ecco allora che la NATO torna ad essere centrale per «favorire il rafforzamento della democrazia, assicurare la stabilità, prevenire il ritorno dei nazionalismi»: «Non si può eludere» la questione dell’allargamento atlantico, «tocca in primo luogo al presidente americano» convincere gli altri paesi membri, il processo dovrà seguire una logica «top-down», perché «se fosse lasciato alle procedure convenzionali, non sortirebbe alcun effetto».

A bollare come «pericoloso» questo scenario, intervengono i servizi segreti di Mosca. In un Rapporto trasmesso al Cremlino nel mese di novembre, gli uomini dell’intelligence evidenziano il rischio di un patto atlantico «in diretta prossimità delle frontiere russe», che comporterebbe «una profonda revisione di tutte le concezioni difensive» e lo «spiegamento di infrastrutture supplementari». Boris Eltsin scrive dunque al suo omologo statunitense: «Caro Bill, l’ampliamento della NATO verrebbe percepito come un segnale di isolamento della Russia» e «contribuirà alla crescita di tendenze non auspicabili negli ambienti civili e militari». Da Mosca giunge l’invito alla «prudenza», con l’auspicio che si possa «riflettere insieme sulle opzioni per soddisfare le esigenze di sicurezza degli Stati dell’Est europeo», offrendo «garanzie ufficiali» in tema di «sovranità, integrità territoriale, inviolabilità dei confini e mantenimento della pace nella regione».

I russi, avverte nei suoi dispacci l’incaricato d’Affari dell’Ambasciata statunitense, James Collins, «vogliono sentirsi dire che la porta della NATO resterà aperta anche per loro», temono «una nuova divisione dell’Europa» che li spinga «dalla parte sbagliata», guardano con «crescente preoccupazione» al dossier ucraino e all’ipotesi che gli americani sostengano, «involontariamente o di proposito», la richiesta di Kiev di mantenere sul proprio territorio un dispositivo nucleare per difendersi dalle «presunte ambizioni imperiali di Mosca».

Stati d’animo che a Washington mostrano di tenere in debito conto: «La tua leadership offre l’opportunità di costruire un’Europa integrata e non divisa», dice Clinton a Eltsin, durante un incontro al Cremlino il 13 gennaio 1994, con il padrone di casa lesto a ribattere che «la Russia deve essere il primo paese a entrare nella NATO, anticipando le nazioni europee centro-orientali», anche se, per la verità, «non siamo ancora pronti a questo passo».

Con il trascorrere dei mesi, cresce la diffidenza. Il 10 maggio del ’95, nel cinquantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, Eltsin accoglie di nuovo Clinton, ma con freddezza e nervosismo: «Perché ti comporti così? Cosa vuoi ottenere? Bisogna fermare il processo di espansione, rinviarlo fino al 2000, va difesa la tranquillità di tutti, e noi non siamo una minaccia», esclama. La replica dell’interlocutore americano è immediata: «Non voglio nuocere agli interessi di Mosca, manteniamo aperta per il tuo paese la porta di accesso alla NATO, procediamo a passo costante e misurato, puoi chiederci di non accelerare, e ti assicuro che non lo faremo, ma non pretendere un rallentamento, o continueremo a dirti no». L’inquilino della Casa Bianca si sforza di rassicurare l’«amico Boris» («Non sosterrò alcun cambiamento che possa minacciare la sicurezza della Russia o dividere ancora l’Europa»), che gli ha spiegato di essere sotto il fuoco delle polemiche alimentate dagli avversari «di destra e di sinistra», e non nasconde di avere anch’egli problemi di politica interna, in vista delle elezioni presidenziali del 1996, speculari a quelli del leader russo: «I repubblicani si dicono convinti di potermi sfilare gli Stati chiave del Wisconsin, dell’Illinois e dell’Ohio, insistendo sulla questione del necessario allargamento della NATO».

Seguono incontri, telefonate, dichiarazioni pubbliche e trattative riservate, fino all’ultima, perentoria richiesta del capo del Cremlino, formulata nel corso di un vertice a Helsinki il 21 marzo 1997: l’espansione del perimetro atlantico «non deve interessare le ex Repubbliche sovietiche, in particolare l’Ucraina». E su questo – chiarisce Eltsin – è sufficiente «un’intesa verbale», un «patto fra gentiluomini», da non rendere pubblico. Di fronte al diniego clintoniano, il leader russo quasi invoca comprensione: «Bill, cerca di capirmi. Sto tornando a casa con un fardello pesante sulle spalle, è molto difficile per me non dare l’impressione di avere accettato l’allargamento della NATO».

Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca saranno i primi Paesi dell’ex patto di Varsavia a varcare la soglia atlantica. Nel 1999 una lunga fase storica giunge a compimento, comincia l’era di Vladimir Putin, di cui proprio Eltsin tratteggia il profilo in una conversazione telefonica con Clinton, l’8 settembre: «Un uomo solido, ben preparato, scrupoloso e dalla forte personalità», un «duro», un individuo «con la schiena dritta», ma al contempo «molto socievole», capace di «intrattenere buone relazioni con i partner», una persona «con un animo profondo». Il presidente americano sostiene di averne già rilevato la «grande intelligenza», Eltsin lo esalta come «un sincero democratico che conosce l’Occidente», rassicurando infine sul fatto che Putin si muoverà «nel solco della democrazia, delle riforme economiche e dell’apertura della Russia al mondo».



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