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Atreju, la storia infinita della goliardia tricolore

Oggi ad Atreju si scherza decisamente di meno. Con la raggiunta maturità politica cambia il clima della manifestazione: l’atteggiamento si fa di anno in anno più serioso e intonato con le responsabilità, prima di opposizione e poi di governo. I luoghi, le stagioni e i protagonisti raccontati da Angelo Ciardullo

Quella di Atreju si può letteralmente definire una “storia infinita”. La festa dei virgulti aennini ispirata al protagonista della Neverending Story di Michael Ende nasce nel 1998 da un’idea non di Stefano Accorsi ma di Fabio Rampelli. E ovviamente di Giorgia Meloni, che di Azione Giovani – erede del Fronte della Gioventù e antesignana della Gioventù Nazionale – divenne presidente nel settembre 2004.

A fronteggiarsi nel congresso dei giovani di An riuniti quell’anno a Viterbo c’erano lei – all’epoca consigliera provinciale di Roma, sostenuta dalla Destra Protagonista di Ignazio La Russa e Gasparri – e Carlo Fidanza, esponente della Destra Sociale di Gianni Alemanno e Francesco Storace appoggiato anche dal “capo” Gianfranco Fini.

Sarà Meloni ad avere la meglio, con quattro voti di scarto: quattro voti che consentiranno alla “gabbiana” di Colle Oppio di spiccare il “grande volo” prima come vicepresidente della Camera nel 2006, poi come più giovane ministro della Storia repubblicana nel 2008.

E da dove poteva partire Atreju se non da Colle Oppio, lì dove – tra i ruderi delle antiche Terme di Traiano – trovarono rifugio prima gli esuli istriani e giuliano-dalmati in fuga dalle purghe titine, poi la prima storica sezione del Msi e infine il laboratorio della destra tolkeniana tenuta a battesimo da Rampelli? Tra gli ospiti della prima “Eurofesta di Azione Giovani” datata 1998 due ministri del morituro governo Prodi I: Luigi Berlinguer e Tiziano Treu, titolari rispettivamente dell’Istruzione e del Lavoro. E poi ancora il presidente della commissione Difesa della Camera Valdo Spini, Daniele Capezzone e – neanche a dirlo – l’uomo della svolta di Fiuggi, l’artefice della “traversata del deserto”: Gianfranco Fini, presenza fissa fino allo strappo con Berlusconi e la fondazione di Futuro e Libertà che gli costerà la scomunica da parte del suo popolo.

Volendo, senza far sgarbo a Schlein, citare solo alcuni degli ospiti che si sono succeduti nelle varie edizioni ricordiamo i “compagni” Marco Minniti, Luciano Violante, Livia Turco, Mario Capanna e Sergio Cofferati. E ovviamente Fausto Bertinotti, che nel 2006 condannò – fuori tempo massimo, ma comunque applauditissimo – i carri armati sovietici che nel ’56 misero a ferro e fuoco la capitale ungherese stroncando la rivolta dei “ragazzi di Buda”.

L’anno seguente fu la volta di un altro compagno, il sindaco di Roma Walter Veltroni, che finì per offendersi dopo essere caduto nella domanda trabocchetto di un giovane militante sullo stato di degrado della inesistente borgata “Pinarelli”, ispirata al film Delitto in Formula Uno con Tomas Milian.

Perché Atreju è – o meglio, era – così: una festa goliardica. Tra le vittime illustri, guardando sempre a sinistra, anche Massimo D’Alema al quale nel 2009 venne fatta firmare in qualità di ministro degli Esteri una petizione per l’intitolazione di un parco a Friederich Kemp, unica (e ovviamente inesistente) vittima della caduta fisica del Muro di Berlino.

Non che agli alleati sia andata meglio. Tra gli scherzi più riusciti quello escogitato nel 2005 ai danni proprio di Fini, buggerato da un giovane militante (Christian, soprannominato “Hobbit”) che all’allora vicepremier e titolare della Farnesina chiese un impegno concreto a favore della minoranza cristiana degli inesistenti “kaziri” del Turkmenistan. “Sì certo, conosco la situazione”, aveva farfugliato il leader di An prima di venire smascherato e replicare con un insolito sense of humor: “Pensavo i kazari, con una sola zeta”.

Altra vittima dei beffardi tiri “destri” (più che mancini) degli universitari della Fiamma fu l’eterno amico-nemico Silvio Berlusconi, cui nel 2007 fu chiesto dal giovane Alberto Spampinato di condannare i crimini dell’inesistente dittatore comunista del Laos Pai Mei, che in realtà è un personaggio di Kill Bill. Sempre meglio della freddezza con cui il Cavaliere verrà accolto nel 2015, a tre anni dall’uscita di Meloni e compagni (absit) dal Popolo della Libertà.

Dopo Colle Oppio venne il Parco del Ninfeo a Tre Fontane, quello del Celio con vista Colosseo, e poi piazza Risorgimento, piazza del Popolo fino ad arrivare a Castel Sant’Angelo: geografia e metafora di un partito che conquista spazi sempre maggiori, sul piano politico come su quello urbanistico. Altro che “il Nulla che avanza” incubo del giovane Atreju.

Cambiano i luoghi, le stagioni si avvicendano, e anche i protagonisti di quella “generazione Atreju” descritta con grande efficacia da Francesco Boezi in Fenomeno Meloni crescono, come i Compagni di scuola di Verdone. I vari Lollobrigida, Donzelli, Procaccini sono oggi ministri (e cognati), responsabili dell’organizzazione, parlamentari europei e via di questo passo. I loro fratelli (d’Italia) maggiori – da Marsilio a De Priamo, da Mollicone a Rampelli – sono governatori regionali, parlamentari e vicepresidenti della Camera.

Con la raggiunta maturità politica cambia anche il clima della manifestazione: l’atteggiamento si fa di anno in anno più serioso e intonato con le responsabilità, prima di opposizione e poi di governo. Oggi ad Atreju si scherza decisamente di meno, e tuttavia resta ancora lo spazio per qualche “momento di trascurabile felicità”.

Come quando, nel 2019, la platea dei giovani accolse il premier ungherese Viktor Orbán intonando Avanti ragazzi di Buda, scritta da Pierfrancesco Pingitore (sì, quello del Bagaglino) nel decennale della rivolta di Budapest: “In oltre vent’anni di Atreju, credo che quello sia stato in assoluto il momento più emozionante”, ricorda Giorgia Meloni nella sua autobiografia.

Peccato che quest’anno l’amico Viktor non ci sarà: una presenza troppo ingombrante, nell’ottica di una possibile convergenza dei Conservatori europei su una “maggioranza Ursula” 2.0. Tuttavia, com’è noto, la vita è fatta di compromessi. E la politica ancora di più.

A benedire questa edizione 2023 dall’altisonante titolo “Bentornato orgoglio italiano” sarà dunque l’arcangelo Michele troneggiante sulla cima di quello che fu il Mausoleo di Adriano. Dopo aver fermato la peste del 590 con l’intercessione di papa Gregorio Magno, allo spadato (con la “p”) arcangelo tocca oggi sedare i bollori della febbre pre-elettorale che si sta impadronendo del centrodestra in vista della doppia tornata regionali-europee.

Con le creature celesti (in senso spirituale, oltre che politico) Giorgia Meloni ha peraltro un rapporto molto speciale: “Credo fermamente che gli angeli si manifestino con chiarezza nella vita di ciascuno di noi, basta saperli ascoltare” scrive nella sua autobiografia la premier, che dall’età di 18 anni colleziona statuette di angeli di ogni foggia (con la minuscola, ché da Foggia ripartirà invece – prima o poi – il centrosinistra) e ha persino dato un nome al proprio alato custode: Harael, come l’angelo dei nati il 15 gennaio. Chissà se domenica, in chiusura di kermesse, il “nostro caro angelo” le suggerirà di annunciare la candidatura.


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