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Quattro possibili soluzioni per evitare l’escalation in Medio Oriente

Di Francesco Spartà

Quattro possibili punti di partenza per impedire l’implosione del Middle East e iniziare a ragionare in chiave prospettica per il dopoguerra, bilanciando gli interessi delle varie parti in causa. L’analisi di Francesco Spartà

 

La settimana scorsa si è concluso il breve, ma intenso viaggio in Medio Oriente di Antony Blinken e, purtroppo, attualmente, di un rallentamento delle tensioni non vi è minima traccia, anzi le avvisaglie di un conflitto che possa progressivamente allargarsi aumentano sempre di più.

Di questa delicata situazione è consapevole il Segretario di Stato americano, il quale durante la sua missione ha visitato ben sette Paesi (oltre a Israele, Turchia, Grecia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania ed Egitto) e incontrato i rispettivi leader politici. Nell’agenda del Segretario non vi è stato dunque esclusivamente l’incontro con i vertici israeliani, dal momento in cui, come la storia dello stato ebraico insegna, il fronte di guerra che riguarda Israele non è mai uno solo, ma coinvolge sempre varie zone del territorio medio orientale e di conseguenza risulta fondamentale ascoltare, valutare e bilanciare gli interessi delle varie parti in causa.

Se prendiamo, infatti, in esame i diversi conflitti che hanno, sin dalla nascita, coinvolto Israele, in nessun caso questi hanno riguardato un solo Paese e quindi un unico nemico, bensì sono stati sempre interessati e chiamati in causa, direttamente o indirettamente, i paesi confinanti, comportando di conseguenza la necessità dei figli di Abramo di doversi difendere lungo tutti i suoi confini.

Già nel 1948, infatti, i sette stati della Lega Araba invasero il neocostituito Stato, che venne colpito a sud dall’attacco egiziano, a est dagli eserciti di Giordania, Iraq e Siria, mentre a nord dall’esercito libanese. Discorso analogo, sia per la guerra dei Sei giorni, quando Levi Eshkol e Moshe Dayan, dovettero fronteggiare le nazioni confinanti di Egitto, Siria e Giordania, supportate sempre da Libano, Arabia e Iraq, sia per la guerra del Kippur, dove la coalizione araba composta da Egitto e Siria vide appoggi militari e finanziari da molte altre nazioni arabe, tra cui Paesi che non erano mai stati coinvolti direttamente (dalla Libia di Gheddafi all’Uganda di Idi Amin Dada). Situazione ripetutasi poi anche durante il conflitto del 1982 in Libano, in cui, nonostante il fronte di guerra fosse principalmente la zona sud del Paese dei cedri, nello schieramento anti-Israele figuravano, oltre naturalmente all’Olp e al-Fath, anche la componente libanese guidata da Amal e la sua costola Hezbollah, e le forze armate siriane.

Sino ad arrivare, infine, all’attacco del 7 ottobre perpetrato da Hamas nei confronti di Israele con l’operazione alluvione al-Aqsa, che ha dato inizio alla guerra tra l’organizzazione sunnita palestinese e lo stato ebraico, la quale si è immediatamente allargata anche al di fuori della Striscia di Gaza. In primis, a nord, sin dal giorno successivo, con Hezbollah che ha iniziato un lancio di razzi contro la regione delle Fattorie di Shebaa, e in secondo luogo nel Mar Rosso, in modo particolare nello stretto di Bab el-Mandeb, con gli Houthi, gruppo paramilitare sciita yemenita, che da fine ottobre attaccano le navi occidentali in risposta ai raid israeliani su Gaza.

Questo breve riassunto storico ci permette innanzitutto di comprendere il motivo per cui durante il viaggio di Blinken, il Segretario di Stato degli Usa ha incontrato i principali leader politici della zona medio orientale e, considerate le differenti parti in causa, l’oggetto dei colloqui e i fatti accaduti nei giorni successivi alla conclusione del viaggio, ho elaborato 4 punti, strettamente interconnessi tra loro, su cui, a mio avviso, progressivamente si dovrebbe iniziare a lavorare per interrompere da un lato il conflitto in corso, scongiurando quell’allargamento delle ostilità che potrebbe divampare in un’escalation a catena in grado di trascinare in guerra numerosi stati del Medio Oriente, ed al contempo iniziare a seminare le basi, in chiave prospettica per garantire stabilità ad Israele e a tutta la zona medio orientale.

1. Tentare di smorzare l’alleanza sciita/sunnita antisraeliana. Questo rappresenta uno degli aspetti troppo spesso trascurati, ma che alla luce dell’attentato del 3 gennaio che ha coinvolto l’Iran, dovrebbe ora essere preso fortemente in considerazione. Nel raccontare quanto sta accadendo in Medio Oriente, spesso, infatti, non ci si sofferma su quella particolare e paradossale alleanza tra sciiti (Siriani, Hezbollah, Iran e Houthi) e sunniti (Hamas), messa in atto in chiave anti-Israele, in grado nel corso degli anni di far passare in secondo piano la secolare guerra religiosa tra i due principali rami dell’Islam.

In questo ultimo periodo però, la storica divisione tra le due componenti religiosi, è tornata, anche e soprattutto nel Middle East, all’attenzione dei più attenti analisti, in seguito, come si anticipava sopra, all’attentato rivendicato dall’Isis (sunnita) in Iran (paese sciita), durante l’anniversario della morte del generale iraniano Qasem Soleimani. Certamente, cercare di mettere in discussione questa alleanza antisraeliana per isolare Hamas appare davvero difficile, tuttavia si deve tenere conto della situazione del Libano. Se, infatti, da un lato risulta oggettivamente impossibile instaurare un dialogo con l’Iran e lo dimostra il fatto che nonostante la strage di Kerman del 3 gennaio sia stata rivendicata dallo Stato Islamico l’Iran ha continuato a gridare vendetta unicamente contro Israele e contro gli Stati Uniti, nei confronti dei quali dal 1979 i rapporti progressivamente hanno toccato il fondo senza mai più risalire, dall’altro lato il discorso potrebbe appunto essere diverso con Hezbollah, gruppo paramilitare libanese anch’esso sciita.

Come affermato, infatti, da Blinken l’8 gennaio partendo da Riad in direzione Tel Aviv, una guerra Israele-Hezbollah non è nell’interesse di nessuno, considerando, inoltre, la disastrosa situazione economica del Libano, il quale sta appunto vivendo la peggiore crisi della sua storia. Ecco perché nonostante l’attentato nei confronti di uno dei vicecapi di Hamas si sia verificato a Dahieh, località a sud di Beirut, è evidente la volontà del gruppo sciita libanese di non scendere esplicitamente in guerra con Israele, che dal suo lato, è molto restia nell’aprire un vero fronte di guerra a nord. D’altronde, come lo stesso ayatollah Khamenei, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, dopo il 7 ottobre, mai è sceso nettamente in campo contro Israele. Bisogna, quindi, iniziare a prendere in considerazione seriamente che le differenze tra sciiti e sunniti restano e sono forti, e la cd. “asse della resistenza”, per quanto emerga all’esterno unita, non può cancellare secoli di ostilità tra le due componenti musulmane. Tentare di smorzare questa alleanza politico/militare potrebbe dunque indebolire quell’unione “antisionista”, evitare la deflagrazione del conflitto a nord e portare in un recente futuro ad un parziale isolamento di Hamas, il quale continua a chiedere armi ai paesi islamici, sunniti o sciiti che siano.

2. Non intavolare nessuna trattativa con l’Anp, ma iniziare a sviluppare un dialogo vero con i palestinesi che ripudiano Hamas, pronti a riconoscere in maniera chiara, netta e definitiva, il diritto di Israele ad esistere. Riaprire un dialogo con Abu Mazen, al fine di affidargli in un futuro la gestione della Striscia di Gaza rappresenterebbe un errore gravissimo, considerata l’ormai poca credibilità di questo organismo politico, anche e soprattutto agli occhi della stessa popolazione palestinese che ha perso ogni fiducia nei suoi confronti. Come affermato anche da Mustafa Barghouti, leader palestinese della resistenza non violenta “l’Anp ha fallito nel fare l’unica cosa che avrebbe dovuto fare, e cioè mettere tutti insieme e creare una unica vera leadership politica palestinese per proteggere i cittadini e per rappresentarli, puntando ad una convivenza con Israele”. Individuare e fare emergere un vero e proprio nuovo movimento politico palestinese, con una nuova leadership, potrà rappresentare un passo importantissimo non solo nell’ottica di una gestione congiunta dei territori palestinesi, ma anche per l’immediato futuro, dal momento in cui non potrà e non dovrà essere affidata ad Israele la gestione e soprattutto la ricostruzione di quel territorio ad oggi distrutto.

3. Garantire implicitamente al governo israeliano “mano libera” sull’eliminazione mirata dei vertici di Hamas, anche se in altri Paesi (come accaduto dopo l’attentato delle Olimpiadi di Monaco del 1972 con l’Operazione Ira di Dio). Questa potrebbe rappresentare una delle carte che spingerebbe Israele a cessare il fuoco sulla Striscia di Gaza, considerato che ormai i leader dell’organizzazione che ha messo in atto il pogrom del 7 ottobre si trovano in altri Paesi, evitando dunque di alimentare il sentimento di odio tra la popolazione palestinese ancora presente a Gaza.

4. Inviare un contingente internazionale (riproducendo la missione Unifil in Libano) sia all’interno della Striscia di Gaza sia nei territori in Cisgiordania, al fine di controllare, soprattutto in quest’ultima zona, i comportamenti dei coloni israeliani, impedire l’avanzata di questi ultimi verso nuovi insediamenti, e in prospettiva, riproporre l’operato di Sharon completato nell’agosto del 2005, quando il primo ministro israeliano impose la ritirata dei cittadini israeliani dai 21 insediamenti israeliani all’interno della Striscia di Gaza e dai 4 all’interno della Cisgiordania. Data che gli stessi palestinesi ricordano con gioia, e che rappresenta per loro un momento di libertà per il popolo palestinese che non riuscì tuttavia a sfruttare, dal momento in cui nell’arco di due anni Hamas avrebbe preso il potere su tutta Gaza. Riprovare, d’accordo con quel movimento politico nuovo di cui si parlava al secondo punto, potrebbe favorire e agevolare la nascita di un territorio progressivamente controllato esclusivamente da palestinesi, ma sempre con un contingente in grado di mantenere vivo il controllo internazionale su questi territori.

(Francesco Spartà, giornalista, tutor accademico e teaching assistant presso Luiss Guido Carli)

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