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Classi dirigenti? O la fedeltà o la militanza e la preparazione. Il commento di Merlo

Restano due i grandi nodi politici, culturali ed organizzativi da sciogliere se si vuole realmente invertire la rotta. E cioè, il ritorno di partiti autenticamente democratici, collegiali e partecipativi da un lato e sistemi elettorali che semplicemente restituiscano ai cittadini-elettori il potere di scelta dei futuri eletti dall’altro. Il commento di Giorgio Merlo

C’è poco da fare. Il capitolo della selezione e della promozione della classe dirigente politica è ritornata al centro del dibattito nella vita pubblica del nostro paese. Ora, nessuno pensa di ritornare, ad esempio, alla mia personale formazione politica. Ovvero, parlo di quella generazione che si è avvicinata alla politica alla fine degli anni 70 e all’inizio degli 80 nei grandi partiti popolari e di massa. Nel caso specifico, nella sinistra sociale della Dc di Carlo Donat-Cattin. Certo, lì c’era un percorso fatto di secca militanza, di radicamento territoriale, di elaborazione culturale e politica, di espressività sociale e, soprattutto, di un rispetto quasi religioso di quel “curriculum” che scandiva l’eventuale ascesa o carriera politica di un giovane appassionato di politica.

Un mondo che, francamente, oggi appartiene quasi alla preistoria. E qui, però, si inserisce l’anello debole del capitolo inerente la cosiddetta “qualità” della classe dirigente politica italiana. E, purtroppo, anche di quella amministrativa. E questo per due motivi persin troppo semplici da spiegare e che non riguardano soltanto la radicale trasformazione dei partiti, l’eclissi delle culture politiche e il tramonto – forse definitivo ed irreversibile – di una straordinaria classe dirigente. E i motivi sono due, appunto: sistemi elettorali che proibiscono, di fatto, al cittadino/elettore di scegliersi i propri rappresentanti e, dall’altro, la fedeltà al capo partito come unico strumento di valutazione del candidato/eletto/dirigente politico.

Ora, è di tutta evidenza che quando l’unico ed esclusivo criterio politico resta quello della fedeltà incondizionata ed esclusiva al capo partito, ci troviamo di fronte ad una situazione dove, di fatto, la politica si riduce ad una mera questione di pallottoliere dove la qualità, l’autorevolezza, la competenza, il radicamento e la stessa espressività sono ridotti a puri optional. E quindi, partiti personali da un lato e sistemi elettorali che spersonalizzano le varie competizioni dall’altro sono le uniche due condizioni strutturali che impediscono, oggettivamente, la risalita della credibilità della politica, il rilancio della partecipazione politica e, infine, il potenziale ritorno di una classe dirigente preparata e qualificata. Certo, poi esistono casi paradossali come quelli a cui abbiamo assistito, basiti ed esterrefatti, in questi ultimi giorni.

Ma il fenomeno del decadimento politico, culturale ed etico parte da lontano. Dopo la fine della prima repubblica, dove c’era una presenza di moltissimi leader politici e veri e propri statisti, già con l’avvio della seconda repubblica – il post tangentopoli – il quadro complessivo della classe dirigente ha iniziato a scricchiolare. Raggiungendo poi il culmine della decadenza con l’irruzione del populismo grillino e con il suo carico di anti politica, di demagogia, di qualunquismo e di pressappochismo.

Ecco perché, per tornare all’oggi, restano due i grandi nodi politici, culturali ed organizzativi da sciogliere se si vuole realmente invertire la rotta. E cioè, il ritorno di partiti autenticamente democratici, collegiali e partecipativi da un lato e sistemi elettorali che semplicemente restituiscano ai cittadini/elettori il potere di scelta dei futuri eletti dall’altro. Due nodi, apparentemente semplici, ma decisivi ed essenziali se si suole aprire una nuova fase per la politica italiana e, soprattutto, per riavere una classe dirigente degna di quel ruolo e di quel nome.

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