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Cosa aspettarsi dalla grande frammentazione dell’ordine mondiale

Di Roberto Sciarrone

Ci sono 55 conflitti aperti nel mondo, con diverse crisi ormai internazionalizzate e svariate condizioni di tensione. Quali scenari aspettarsi, mentre il Sud Globale cresce, secondo Roberto Sciarrone (Unitelma Sapienza)

Il 2024 si è aperto lasciando inalterate le principali controversie internazionali che hanno caratterizzato lo scorso anno. Attualmente nel mondo si contano 55 conflitti armati attivi tra Stati, di cui otto hanno raggiunto il livello di guerra e 22 sono stati internazionalizzati, il che significa – come riporta l’Osservatorio di Politica Internazionale del Senato della Repubblica, Camera dei Deputati e Ministero degli Affari Esteri — che una o entrambe le parti hanno ricevuto il supporto di truppe da uno Stato esterno. Molti di questi conflitti non ricevono dai mass-media la stessa copertura, tuttavia impattano in maniera devastante sulle società che li soffrono da decenni. Guerre che definiscono il 2023 come l’anno con il più alto numero di conflitti dalla Seconda guerra mondiale (1939-1945), così come denunciato da Volker Turk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhchr), a margine di una conferenza stampa a Ginevra lo scorso dicembre.

Secondo le Nazioni Unite, nei conflitti contemporanei fino al 90 per cento delle vittime sono civili, soprattutto donne e bambini. Le donne, in particolare, possono subire forme specifiche e devastanti di violenza sessuale, a volte usata sistematicamente per raggiungere obiettivi militari o politici.

Policrisi in corso

Ci sono guerre che dividono (Russia/Ucraina e Israele/Gaza) e poi la “grande frammentazione” dell’ordine mondiale, tema ampiamente dibattuto e risultato di un 2023 che ha visto nascere nuove crisi e punti di rottura contribuendo, in maniera forte, a rinvigorire tendenze e collisioni nella politica internazionale. Dalla competizione globale per il controllo dei settori strategici alla crescente polarizzazione che sta disunendo l’Occidente, dalla paralisi – di fatto – delle istituzioni multilaterali (in un mondo multipolare) all’affermazione di nuovi attori del “Global South sempre più “battitori liberi” sganciati dalle logiche occidentali, fino a nuovi e meno nuovi conflitti in Medio Oriente e Nagorno-Karabakh, con lo stallo in Ucraina e il Sud del mondo che avanza demograficamente ed economicamente. E poi il digitale, l’intelligenza artificiale e le società che mutano a ritmi sempre più dinamici rispetto ai paradigmi del XX secolo. Un mondo sempre più incerto e frammentato.

Partendo dall’ultimo conflitto, in ordine temporale, è chiaro come il primo interrogativo riguarda la guerra a Gaza, è riuscita o meno a unire il fronte degli Stati arabi o sta contribuendo a creare ulteriori divisioni? Analizzare le conseguenze del conflitto in corso tra Israele e Hamas è molto difficile, al netto del drammatico numero di morti (più di 20mila tra cui donne e bambini), è chiaro che le conseguenze esterne dipenderanno da “come” finirà la guerra. Il primo punto da affrontare è se questo conflitto abbia unito o meno il frammentato e volubile fronte degli Stati arabi più l’Iran e la Turchia. Dopo la condanna unanime all’attentato del 7 ottobre due sono state le reazioni: una più decisa che ha condannato Israele come potenza neocoloniale di occupazione a fronte della complessa situazione palestinese, e un’altra che ha riconosciuto la posizione di Israele, pur riconoscendo la tragedia del popolo palestinese, ma condannando però la veemente reazione di Gerusalemme. Prima reazione, sostenuta da Algeria, Tunisia, Libia, Siria e Iraq; mentre la seconda (posizione degli Stati arabi “moderati”) da Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto, forse Qatar e Marocco. L’Iran, con i suoi alleati come Hezbollah, gli Houthi yemeniti e le milizie sciite di Iraq e Siria, ha una posizione di opposizione nei confronti di Israele, mentre la Turchia, sempre attenta a muoversi con equilibrio su tre continenti, bilanciando interessi e opportunità, sta mostrando una posizione forte contro la reazione di Israele, ma al contempo sta attenta a non depauperare connessioni economiche e commerciali imbastite negli ultimi anni con Israele.

Cosa accadrà agli Accordi di Abramo che stavano per ottenere – miracolosamente – l’adesione dell’Arabia Saudita? I bombardamenti di Gaza hanno reso eticamente impossibile per l’élite saudita unirsi a Israele, e non avranno altre adesioni da Stati arabi, ma questo non implica la “fine” del processo di sottoscrizione degli Accordi. L’Egitto poi è un altro attore regionale che rischia di più e che subisce le pressioni israeliane sulla popolazione di Gaza affinché si sposti a sud in direzione del confine egiziano. Crisi umanitaria che potrebbe causare disordini interni a Il Cairo. La guerra poi ha contribuito a far riemergere l’islamismo in molti Paesi, dato questo che coinvolge anche l’Occidente in maniera diretta. Molto dipenderà da quando e come si arriverà a un accordo di pace. Sì, ma sarà un accordo duraturo?

Il 2024 sarà anche un anno di elezioni, negli Stati Uniti, certo, ma anche in Russia dove Vladimir Putin si prepara per quelle presidenziali del prossimo marzo. Escalation militare post-elezioni? L’altro conflitto che divide, quello tra Russia e Ucraina, si appresta a compiere il secondo giro di boa, con un numero totale di soldati ucraini e russi uccisi o feriti dall’inizio della guerra che si avvicina a 500.000, secondo il New York Times. In marzo Putin rinnoverà la sua legittimità riaffermando la sua “operazione speciale”, un’acclamazione spesso coercitiva e senza alternative più simile alla veče (assemblea popolare) novgorodiana medievale – secondo l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionaleche alle moderne elezioni competitive.

Cosa aspettarsi? Anche qui bisognerà fare i conti, nonostante la fedeltà della popolazione, a non portare allo sfinimento un popolo (quello russo) attento ai comfort di uno stile di vita ormai acclarato. Ecco perché per Putin sarà probabilmente più utile, anche dopo le elezioni, continuare la guerra “di fondo” senza il coinvolgimento fisico della maggioranza, ma attraverso contenuti ideologici che rafforzino il suo progetto imperiale di ampliamento delle terre russe. Putin, poi, non avrà bisogno di cambiare la sua linea di politica estera, tra un’Europa sempre più frammentata (con alcuni paesi verso posizioni di destra) e i conflitti interni in Usa sarà complicato, probabilmente, mantenere aiuti militari e finanziari all’Ucraina. Un’altra domanda è: l’Ucraina sarà costretta a sedersi al tavolo dei negoziati? Probabilmente entrambe le parti stanno già perdendo questa guerra.

L’ascesa del Global South

Infine, ma non ultimo tra i temi di cui sentiremo parlare in questo 2024, l’ascesa del Sud globale, questione affascinante che rappresenta senza dubbio una svolta storica nell’ambito della politica internazionale. La centralità dell’Occidente negli affari mondiali, percezione spesso distorta della realtà da parte del Nord globale, è da anni in declino e suggerisce un importante punto di svolta nella politica globale.

Il termine “Sud globale” definisce soprattutto le condizioni economiche e politiche internazionali, più che una posizione geografica, includendo nazioni in via di sviluppo dell’America del Sud, dell’Africa e dell’Asia.

Qual è l’idea di Sud globale? L’idea è legata in misura crescente agli sforzi individuali o collettivi compiuti dai Paesi in via di sviluppo nel definire i risultati internazionali e una partecipazione più equa ai processi decisionali globali. In questi ultimi anni il concetto di Sud globale ha presentato una prerogativa sempre più geopolitica, diversi Paesi come India, Sudafrica e Brasile hanno perseguito obiettivi di medio e lungo periodo “uscendo” da allineamenti basati sulla ideologia o sulla politica dei blocchi. Esempio di questa politica è stata l’opposizione all’adozione di sanzioni contro la Russia voluta dai Paesi del Nord globale. Non allinearsi quindi, oltre alla chiara evoluzione di specifici raggruppamenti come i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che hanno allargato la loro compagine ad Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Moneta comune e riduzione della dipendenza dal dollaro USA e dal sistema di pagamento Swift, queste le proposte. Altri Paesi, come Messico, Turchia e Indonesia, sono vicini ai Brics ma hanno scelto di imporre la loro leadership regionale di medie potenze seguendo percorsi diversi. Paesi, questi, che danno voce al loro scetticismo nei confronti della competizione ormai cristallizzata tra Stati Uniti e Cina. E gli altri? Ci sono, eccome!

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