Dialogo con Rosario Cerra, presidente del Centro Economia Digitale, e Federico Fubini, editorialista e vicedirettore del Corriere della Sera, sui grandi temi emersi al World Economic Forum. Il basso profilo cinese, l’inaspettata presenza del ministro degli Esteri iraniano, il ruolo del dollaro e la rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale, legata a quella energetica: l’Italia rischia di non essere più un Paese avanzato tra pochi anni se non saprà produrre energia pulita sufficiente (dunque nucleare) per alimentare i data center
Si è da poco chiusa la settimana del World Economic Forum di Davos, e a breve si terrà la prima ministeriale del G7 a guida italiana (13-14-15 marzo a Verona e Trento, su industria, tecnologia e digitale). Quali temi al centro dei panel e (soprattutto) dei colloqui informali che si sono tenuti in Svizzera avranno un impatto sulle 20 riunioni italiane, in particolare su quella dei capi di governo che si terrà a Borgo Egnazia in Puglia dal 13 al 15 giugno? Ne abbiamo parlato con Rosario Cerra, presidente del Centro Economia Digitale, e Federico Fubini, vicedirettore del Corriere della Sera che da anni partecipa al summit alpino, curatore della newsletter Whatever it takes.
Bretton Woods, il dollaro (ancora) centrale e i dubbi sul debito americano
Cerra ha ricordato che nel 2024 ricorrono gli 80 anni degli accordi di Bretton Woods, un anniversario che cade in un momento di grandi tensioni geopolitiche e di grandi cambiamenti nell’ordine del commercio internazionale. Molti ritengono che sarebbe il momento di rimettersi al tavolo per rilanciare le istituzioni internazionali multilaterali anche per tenere conto dei grandi cambiamenti in atto. C’è uno spazio di manovra su questo o ci dobbiamo rassegnare ad un periodo di turbolenze crescenti dagli esiti imprevedibili? L’Europa può avere un ruolo in questo processo? L’Italia alla guida del G7 potrebbe dare un impulso in questa prospettiva?
Secondo Fubini bisogna intendersi su quale ottantesimo compleanno di Bretton Woods stiamo celebrando: quello della formalizzazione del dollaro come moneta internazionale di riserva? Quello si può celebrare, perché il dollaro, malgrado tutto, resta al centro del sistema finanziario globale. Ci sono però delle domande, espresse da David Rubenstein (fondatore di Carlyle Group) e altri investitori, sul fatto che un’America che continua a gestire dei deficit di bilancio intorno al 6% del Pil, con un debito al 122%, è esposta allo stesso rischio che hanno vissuto altre grandi potenze economiche del passato che a un certo punto hanno visto la loro moneta entrare in crisi e perdere lo status di moneta di riferimento (vedi Regno Unito e prima ancora Olanda). Il tutto pur essendo in una fase di crescita abbastanza vivace, in piena occupazione, perché gli Usa continueranno a emettere molti titoli di Stato sia sotto un’amministrazione democratica come adesso, sia con un’eventuale amministrazione repubblicana.
“Un eccesso di debito, un eccesso di offerta di titoli e potenzialmente in un’amministrazione Trump con una Federal Reserve diversa, con un vertice nominato dal presidente, può portare a un indebolimento del dollaro. È un tema che aleggiava a Davos”, precisa Fubini.
“Se invece stiamo parlando di festeggiare Bretton Woods come rilancio degli organismi finanziari di multilaterali, quello è difficile, perché il 2023 si è chiuso con il rifiuto da parte degli Stati Uniti di rinegoziare i diritti di voto nei board del Forndo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale per il riflettere il maggiore peso della Cina nell’economia internazionale. Di fatto il Fmi viene oggi riconosciuto come un organismo sostanzialmente del G7, dunque con una sua legittimità limitata. Dal lato positivo bisogna dire che abbiamo appena attraversato una fase molto rapida di aumento dei tassi di interesse da parte di tutte le principali banche centrali occidentali. Senza che questo abbia generato delle crisi finanziarie sistemiche nei paesi emergenti, come è avvenuto in altri cicli di stretta monetaria, per esempio negli anni ‘90″.
La Cina a Davos, sembra passato un secolo dal debutto di Xi Jinping nel 2017
Parlando della Cina e del tentativo di allargare la sua influenza nel sistema creato a Bretton Woods, ho chiesto a Fubini come si fosse presentata quest’anno a Davos la delegazione cinese. Nel 2017 Xi Jinping fu il primo presidente cinese a partecipare al summit dei big della finanza, proprio nei giorni in cui Donald Trump prendeva possesso della Casa Bianca. Allora sembrava paradossale, ma il leader cinese si presentava come campione del libero mercato globalizzato mentre l’omologo americano si apprestava a mantenere le sue promesse protezionistiche. Oggi tra Washington e Pechino c’è un campo minato di sanzioni commerciali incrociate, i rapporti tra Biden e Xi sono persino più complessi di quelli che intercorsero con Trump, e la Cina viene da mesi turbolenti di crescita più bassa del previsto, crisi immobiliare e fuga di capitali stranieri.
“Quest’anno, ed è la seconda volta di fila, la nutrita delegazione cinese aveva a capo il premier Li Qiang, che ha fatto un discorso molto business friendly alla comunità di Davos: siamo aperti, i nostri punti di forza sono molto superiori ai nostri punti debolezza, come i picchi delle Alpi e le loro vallate”, racconta Fubini. “Un linguaggio simile a quello dei leader cinesi degli ultimi 20 anni, da quando fa parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Allo stesso tempo, l’impressione è stata di una presenza di basso profilo. La spinta ‘mondialista’ del 2017 è lontanissima. Si è parlato molto poco di Cina nei panel, a quali hanno partecipato pochi rappresentanti cinesi, mentre ben più numerosi erano i membri provenienti dai Paesi del Golfo, alla ricerca di una forte esposizione internazionale”.
Interessante è stato l’atteggiamento di Robin Zeng, presidente di Catl, colosso delle batterie per autoveicoli che oggi ha il 40% del mercato, “un innovatore di quelli che hanno cambiato l’industria a livello globale. Ecco, persino lui ha mantenuto un profilo basso”. Per Fubini, la ragione è che “i cinesi sono consapevoli di essere avanti tecnologicamente nei settori della transizione energetica e della mobilità. Vogliono fare tesoro, ma non sbandierare, questo vantaggio che va al di là anche di quello che noi in Occidente abbiamo capito”.
Intelligenza artificiale, il nano europeo e il modello francese
Cerra ha poi toccato il tema (dell’anno, di Davos, del G7), ovvero l’Intelligenza artificiale. Ma lo ha fatto da un punto “operativo”: grande interesse ha suscitato la francese Mistral, che potrebbe ricavarsi un ruolo all’interno di un mercato dominato al momento da colossi come Google o l’alleanza Microsoft-OpenAI. Il mercato dell’IA è ancora contendibile e c’è ancora spazio per la crescita di realtà europee?
L’hype intorno a Mistral – fondata nell’aprile 2023 e valutata due miliardi di dollari dopo il round di finanziamento dello scorso dicembre – è legato a Emmanuel Macron, dice Fubini, perché il presidente francese ha presentato una visione di dove vuole portare il suo Paese (e l’Europa) nei prossimi 5-10 anni. “Leader europei con la stessa prospettiva? Non ne vedo, sembrano tutti a fine legislatura. Macron promette di puntare su istruzione avanzata, applicazione dell’intelligenza artificiale, industria della difesa e transizione ecologica. Con una forte spinta che arriva dall’energia nucleare”.
Senza nucleare, l’Italia si condanna a essere un Paese emergente
Cerra ha da poco presentato il rapporto annuale del Centro Economia Digitale, sulle tecnologie di frontiera, che in questo settore racconta un’Europa minuscola davanti al gigante americano e al corpulento contendente cinese, in termini di investimenti, start-up, brevetti.
“Ecco, noi europei siamo nani, ma la Francia è messa relativamente meglio. Soprattutto per quello che ha detto un top manager di Hitachi”, e che ci ha raccontato Fubini: “Secondo i loro studi, l’applicazione dell’intelligenza artificiale porterà i data center a consumare, nel 2050, mille volte più energia di oggi. Il 2050 sembra lontano, ma non lo è: se in una fase di transizione energetica dobbiamo garantire una simile quantità di Gigawatt, vuol dire che siamo di fronte a un bivio: o rinunciamo all’applicazione sistematica dell’intelligenza artificiale, alla produttività, ai processi nelle imprese e dunque rinunciare di essere alla frontiera tecnologica insieme ai Paesi più avanzati. Questo Macron lo ha detto molto chiaramente presentando il suo piano France 2030, data alla quale prevede la crescita dei reattori nucleari anche attraverso la costruzione massiccia di SMR, small modular reactors. A Davos era rappresentata la Newcleo di Stefano Buono che sta sviluppando questa tecnologia, ed è probabilmente l’azienda più avanzata in questa tecnologia che punta al riciclo e riuso delle scorie. Oggi l’azionariato è al 90% italiano, e in gran parte si basa su forza lavoro italiana. Macron sta offrendo a Newcleo un aumento di capitale da un miliardo e mezzo, perché se la vuole portare in Francia. L’Italia o si dota di una strategia più coerente di quella attuale per la transizione energetica, che include il nucleare nel mix, o tra 10 anni non sarà più un Paese avanzato perché le applicazioni dell’IA saranno tali da essere sostenibili solo da chi potrà produrre molta energia pulita, molto più di oggi”.
L’ospite inatteso: il ministro degli Esteri iraniano
Una presenza notevole al summit è stata quella del ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian. In rappresentanza di un Paese, parlando di nani e giganti, che in termini economici non avrebbe molto da dire. E invece non è mai stato così protagonista come in queste settimane, attraverso le azioni di Hamas e degli Houthi, due dei suoi principali proxy. Teheran sostiene di non essere dietro la carneficina del 7 ottobre e di non fomentare i ribelli yemeniti che stanno attaccando le navi occidentali nel Mar Rosso. Eppure non c’è dubbio che, dai droni venduti ai russi e usati contro i civili ucraini al continuo arricchimento di uranio in vista di una capacità nucleare anche militare, gli ayatollah sanno come rendersi protagonisti nel disordine globale. Amir-Abdollahian è stato intervistato in solitaria da Fareed Zakaria, storico volto di Cnn, tra le proteste di partecipanti israeliani e americani (gli organizzatori hanno fatto spallucce: “qui invitiamo tutti, ci interessa il dialogo”, hanno detto a Ian Bremmer).
Secondo Fubini, il ministro ha “espresso una grande cautela. Parlando con diplomatici che conoscono bene lo Yemen, la versione iraniana non sembra essere così fuorviante. È vero che Teheran coopera, sostiene e arma gli Houthi. Ma non è detto che stia indirizzando in questi attacchi, che li guidi giorno per giorno. Non dimentichiamo che a fine settembre ci furono grandi proteste a Sanaa contro il regime degli Houthi, che non era in grado di pagare gli stipendi e mandare avanti lo Stato. Dopo gli attentati del 7 ottobre, e con le azioni sulle navi cargo, questa tribù di 50mila persone si è reinventata nemico pubblico numero uno del Satana americano, riconquistando legittimazione nel popolo. Il messaggio mandato dal ministro iraniano è: non vogliamo un’escalation. D’altronde avrebbero potuto rispondere agli attacchi sul suolo yemenita con azioni di disturbo nello stretto di Hormuz, ma non è accaduto. C’è tutta la retorica, la difesa del popolo palestinese, il disprezzo per l’Occidente, ma non un vero desiderio di far precipitare il conflitto. L’Iran ha un ruolo destabilizzante, ma ci sono altri attori con rapporti altrettanto pericolosi nella regione, vedi il Qatar”.
Cerra ha concluso sulla presenza italiana a Davos, con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti “che ha cercato di attivare o promuovere gli acquisti sui titoli del nostro debito pubblico. Ora, noi sappiamo che il tema è la sostenibilità del debito attraverso progetti di crescita. E questa crescita inevitabilmente si poggia solo ed esclusivamente nei prossimi anni sulle capacità tecnologiche produttive. Nel rapporto annuale sulle tecnologie di frontiera, il Ced ha pubblicato i dati in cui emerge come nel corso degli ultimi 5 anni, su intelligenza artificiale e quantum, Stati Uniti e Cina hanno investito sulla specializzazione, mentre l’Europa ha fatto esattamente il contrario. È andata verso la de-specializzazione, e l’Italia ha seguito lo stesso trend. La domanda è: come facciamo a riportare questi temi al centro dell’agenda politica italiana?”
Per Fubini si tratta della domanda da 100 milioni di dollari. “Non riguarda solo l’attuale governo, di un’intera generazione di classe politica che si direbbe non avere una sua visione per la crescita. Che emerge dal trauma della crisi finanziaria con l’idea che risanamento uguale recessione. Mentre spesa pubblica in deficit uguale crescita. Una politica industriale che si concentra solo su emergenze e dissesti, senza un’idea di dove portare il Paese. Insomma, se uno è ministro dell’Economia, se uno è governatore della Banca d’Italia, si alza la mattina e la sua prima preoccupazione è come finanziare il debito nei prossimi sei mesi, e tutto è subordinato a questo, allora è inevitabile che si facciano scelte anche non favorevoli alla crescita. Come riportarla nel dibattito pubblico? Durante la conferenza stampa della presidente del Consiglio, nessuno le ha chiesto un numero, un progetto per la crescita, con l’eccezione del collega del Corriere. Anche noi giornalisti dobbiamo assumerci la nostra responsabilità da questo punto di vista, anche chiedendo più chiarezza e più dettagli sul piano più importante di questi anni, il Pnrr, incardinato in un ministero che non ha un portavoce e che non è in grado di fornire dati aggiornati. A volte basterebbe comunicare meglio per dare il segnale che la crescita è una priorità”.
Il fattore Trump e la paura (soprattutto europea)
Il dialogo si chiude discutendo del grande assente eppure grande protagonista di Davos, Donald Trump, “la persona più importante del World Economic Forum 2024”, secondo Fubini: “Tutti parlavano di lui, nei corridoi e anche nei panel. Il sentiment era abbastanza negativo, e decisamente più preoccupato che nel 2016, alla vigilia della sua vittoria. Perché a questo giro tutti sono coscienti che in caso di vittoria non ci sarebbero figure dell’establishment repubblicano messe lì a ‘controllarlo’, come fu l’altra volta con il presidente di Golman Sachs Gary Cohn. E non aiuta l’incertezza del quadro geopolitico, con due guerre in corso”. A temere di più, in ogni caso, devono essere gli europei. “Il mondo del business americano, se vince Trump, troverà il modo di andare d’accordo con Trump”.