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Ripartiamo da donne e giovani, viatico per la crescita. Scrive Liuzzo

Gli ultimi dati Istat sul lavoro certificano che sull’occupazione femminile e giovanile ci sono ampi margini di miglioramento. La quota degli occupati tra 15 e 34 anni di età è scesa dal 30,1% del terzo trimestre 2008 al 22,7% del terzo 2023, mentre quella di chi ha almeno 50 anni è aumentata dal 24,2% al 40,4 per cento. È ora di trasformare in forza le nostre debolezze, come avrebbe voluto Guido Carli. L’intervento di Romana Liuzzo, presidente della Fondazione Guido Carli

«La nostra forza matura dalla debolezza», scriveva il filosofo e scrittore americano Ralph Waldo Emerson. Una verità preziosa per orientare la politica economica e guardare alle nostre fragilità come opportunità da cogliere. L’esempio più lampante arriva dagli ultimi dati Istat sul lavoro: a novembre, secondo le stime provvisorie diffuse l’8 gennaio, gli occupati sono arrivati al record di 23,7 milioni con un tasso di occupazione che ha raggiunto il 61,8 per cento. Ma era stato lo stesso Istituto nazionale di statistica a dicembre, in un focus dedicato, a segnalare come l’aumento del numero di occupati si concentri tra gli ultracinquantenni, mentre addirittura diminuisca nella fascia tra 35 e 49 anni.

Come si spiega, dal momento che il tasso di occupazione cresce per tutti? È l’effetto dell’inverno demografico: in un anno la popolazione in questa fascia d’età è fortemente diminuita (-2,3%), a fronte di una sostanziale stabilità di quella tra i 15-34enni (-0,3%) e di un incremento di quella con almeno 50 anni. Poiché il tasso di occupazione è il rapporto tra il numero di occupati e la popolazione residente, può infatti aumentare anche quando il numero di occupati diminuisce, se tale calo è più marcato di quello della corrispondente popolazione. Così è successo: scomponendo i dati, l’Istat evidenzia che tra il terzo trimestre del 2022 e il terzo trimestre del 2023 è nelle classi di età più avanzate che la crescita degli occupati è molto più marcata di quella della popolazione e l’aumento del tasso di occupazione raggiunge il massimo tra i 60-64enni.

Non c’è troppo da sorridere, dunque, e c’è invece molto da fare per migliorare l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. Quei giovani a cui il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha dedicato gran parte del suo discorso di fine anno, riconoscendo il disorientamento «che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese. Debole nel contrastare una crisi ambientale sempre più minacciosa. Incapace di unirsi nel nome di uno sviluppo globale».

Giovani sempre più minoranza in un’Italia vecchia, stanca e impaurita. L’Istat sottolinea come negli ultimi quindici anni, segnati dalle crisi del 2009-2013 e da quella derivata dalla pandemia, la forza lavoro è progressivamente invecchiata, complici una popolazione sempre più anziana, percorsi formativi che si allungano, requisiti più stringenti per andare in pensione. La quota degli occupati tra 15 e 34 anni di età è scesa dal 30,1% del terzo trimestre 2008 al 22,7% del terzo 2023, mentre quella di chi ha almeno 50 anni è aumentata dal 24,2% al 40,4 per cento.

Cifre che devono far riflettere, perché è vero che oggi il bilancio occupazionale è positivo, rispetto al terzo trimestre 2008 (+458 mila), ma è la sintesi di un calo di circa 1,6 milioni di occupati tra 15 e 34 anni e di 1,9 milioni tra 35 e 49 anni, che è stato più che compensato dall’aumento di quasi 4 milioni di occupati di 50 anni e più. Malgrado il forte recupero negli ultimi due anni, il tasso di occupazione tra i giovani di 15-34 anni è diminuito di quasi sei punti, quello dei 35-49enni è tornato sostanzialmente simile (-0,2 punti), mentre per la classe di età tra 50 e 64 anni è aumentato di 17 punti. La piramide si è rovesciata, con i problemi di sostenibilità del nostro sistema pensionistico e di welfare che ne derivano.

Con le donne si apre l’altro capitolo rovente. A novembre 2023 il tasso di occupazione femminile è al 52,9%, ai massimi, ma ancora distante ben 18 punti da quello degli uomini e 14 punti sotto la media Ue, come ha registrato di recente un dossier del Servizio studi della Camera dei deputati. Una su cinque dice addio al lavoro dopo la maternità. Su 61.391 dimissioni convalidate nel 2022 dall’Ispettorato nazionale del lavoro, aumentate del 17,1% rispetto al 2021, ben 44.699 (il 72,8%) arrivano da donne, soprattutto neomamme per cui conciliare l’attività professionale con la maternità si è rivelato impossibile. Un’ingiustizia. Il premier Giorgia Meloni lo ha detto pochi giorni fa: «Il concetto che non condivido e non condividerò mai è che un traguardo debba toglierti l’opportunità dell’altro. Non c’è bisogno di rinunciare a una cosa per un’altra: fai tutte le scelte libere della tua vita, quello che dobbiamo fare noi è costruire gli strumenti per favorirlo. Voglio smontare il racconto, che spesso non è soltanto un racconto, che, se tu metti al mondo un bambino, ti precludi altre possibilità».

Ridurre gli squilibri è una questione di equità, certamente, considerando anche la piaga intollerabile della disparità salariale. Ma è anche, ormai, una evidente questione economica. Perché dal lavoro dipende la crescita e la partecipazione, altro valore chiave nel discorso del Presidente Mattarella, e sul lavoro qualificato poggia il destino della competitività del Paese. Non siamo una nazione che può contare sulla ricchezza di materie prime, come gli Stati Uniti e la Cina. Non abbiamo la produttività della Germania. Il valore su cui dobbiamo scommettere è rappresentato dalle persone: formazione e capitale umano, insieme alle tecnologie, sono le nostre risorse strategiche, come dimostra la nostra manifattura di successo.

Liberare il potenziale inespresso del Paese – le energie dei giovani e delle donne – sarebbe stato l’insegnamento di Guido Carli, lo statista che fu Governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, presidente di Confindustria e ministro del Tesoro, per me il nonno che mi ha educato all’onestà e alla responsabilità. L’ex Governatore Ignazio Visco ha ricordato l’impatto dell’azione di Carli in quindici anni sul personale della principale istituzione finanziaria italiana: gli addetti aumentarono di circa mille unità, a più di 8mila, i giovani furono sguinzagliati all’estero, il servizio studi fu notevolmente irrobustito, le donne passarono dal 16% al 25% e per loro si aprirono le porte della carriera direttiva. È la cura che oggi serve all’Italia intera: agire in fretta sui punti deboli del nostro sistema economico e del nostro mercato del lavoro per gettare a terra le zavorre. E spiccare il volo.

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