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I gap infrastrutturali ci hanno aspettato al valico

Di Miro Scariot

L’Italia paga a caro prezzo un passato fatto di troppi no alle grandi infrastrutture ferroviarie. Le frontiere italiane sono diventate dei veri e propri colli di bottiglia per il traffico merci su rotaia, una situazione insostenibile per le aziende del settore cargo, ma anche per le imprese del Nord che ora temono di subire gli effetti della chiusura dei valichi

Le frontiere italiane sono diventate dei veri e propri colli di bottiglia per il traffico merci su rotaia, una situazione insostenibile per le aziende del settore cargo, ma anche per le imprese del Nord che ora temono di subire – di rimbalzo – gli effetti della chiusura dei valichi. La chiusura del valico del Frejus fino a dicembre 2024, i lavori di ripristino delle rotaie in una canna del San Gottardo e la manutenzione programmata di quello del Monte Bianco, rivelano l’assenza di valide alternative per il traffico merci tra l’Italia e la Francia.

È in questo contesto che si sente l’assenza della Torino – Lione i cui cantieri, diventati campo di battaglia ideologico e laboratorio del Nimby italiano, hanno subito ritardi su ritardi con costi altissimi per la collettività. L’avvio dei lavori di scavo – dopo 33 anni – sono un pannicello caldo che fa guardare al futuro con maggiore ottimismo, senza però alleviare i dolori del presente e i rimorsi su dei ritardi che stiamo già pagando.

Un vero e proprio tsunami per la logistica ferroviaria, per le aziende del centronord e non solo, visto che le difficoltà nel superamento dei valichi alpini ha impatti anche sui nostri porti e sull’intermodalità, in una fase in cui la crisi del Mar Rosso rischia di favorire ulteriormente gli approdi del Nord Europa. L’Italia ama ricordare la propensione all’export della sua manifattura, ma per esprimere questo potenziale è necessario essere connessi al sistema Europa. I valichi alpini sono la nostra porta d’accesso al continente, ciò che ci permette di superare le Alpi senza doversi ispirare ad Annibale.

Il conto che stiamo pagando è quello ampiamente prevedibile, il calice amaro di decenni di disinteresse nei confronti delle ferrovie e, più in generale, delle grandi opere. Il trasporto merci su ferro non è una moda, ma una necessità per rendere competitivo il nostro “Sistema Paese” e abbassare in modo efficace e non ideologico l’impatto ambientale della logistica. Si tratta di una scelta obbligata che è testimoniata dalla missione 3 del Pnrr e dal pacchetto europeo “Greening Freight Transport”.

La situazione è complessa e sta portando a un’inversione di tendenza nello “shift modale” che ora sta riorientandosi verso il trasporto su gomma. Un paradosso frutto dei già citati disagi alle frontiere, ma anche dei rallentamenti generati dalla grande mole di interventi di potenziamento che stanno caratterizzando la rete ferroviaria italiana dopo anni in cui il ferro sembrava passato di moda.

Il trasporto merci su rotaia deve essere la spina dorsale della nostra penisola, l’unico strumento capace di raccordare i porti con l’infrastruttura nazionale e garantire all’Italia la possibilità di diventare hub di tutto il continente. Il divario accumulato con il resto dell’Europa va colmato, con il 13% di merci che vengono mosse sul ferro, l’Italia si pone a un livello inferiore ai partner europei e distante anni luce dagli obiettivi Ue in ottica 2050.

Il combinato disposto delle criticità ai valichi e dei lavori sulla rete rischia di zavorrare la logistica italiana rispetto ad altri Paesi europei, generando quindi uno svantaggio anche per i nostri porti. Un rischio frutto dalla totale assenza di visione che ha caratterizzato i decenni precedenti rispetto al ruolo dell’Italia come punto di raccordo tra il Mediterraneo e l’Europa.

L’Unione Europea, nel corso degli ultimi decenni, ha tracciato diversi corridoi su cui deve poggiare la struttura logistica dell’Unione. Un progetto ambizioso e di prospettiva nel quale l’Italia è stata a lungo un protagonista troppo timido a causa della pressione delle proteste nimby, ma anche della scarsa propensione a farsi carico di progetti invasivi quanto fondamentali da parte di molte amministrazioni che hanno ceduto alle sirene del consenso.

Ora che siamo in “emergenza” non ci sono percorsi alternativi, gli impatti per le aziende ferroviarie, secondo uno studio del professore della Bicocca Andrea Giuricin, si attestano a quasi 50 milioni l’anno. Un danno frutto di un’assenza di visione che ora – sempre secondo lo studio di Giuricin – costa all nord-ovest circa 870 milioni l’anno.

La situazione attuale è un insegnamento per rivedere l’approccio nei confronti delle grandi opere, delle infrastrutture fondamentali per favorire lo sviluppo e garantire una maggiore resilienza. Il sistema infrastrutturale su cui poggia il nostro export si è rivelato fragile, una conseguenza della staticità degli anni passati, un campanello d’allarme rispetto agli effetti deleteri che la mancata realizzazione di un’opera alternativa come la Torino – Lione sta generando Tra Pnrr e fondi europei Cef (Connecting Europe Facility), l’Italia investirà nel settore ferroviario circa 30 miliardi di euro entro il 2026. Un cambio di passo importante supportato dal Gruppo Ferrovie dello Stato e da una tabella di marcia rigida che rappresenta una garanzia ulteriore in un Paese da sempre poco efficiente nell’utilizzo delle risorse comunitarie.

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