Tutti gli interrogativi di cui dovrebbe occuparsi la classe politica. Possibilmente prima che i problemi inizino ad occuparsi senza freni di noi. L’intervento di Luigi Tivelli, presidente dell’Academy di cultura e politica Giovanni Spadolini, e Francesco Subiaco, vicesegretario generale dell’Academy di cultura e politica Giovanni Spadolini
In questi mesi il tema dell’impatto dell’Intelligenza artificiale sull’economia, sulla società e sulle istituzioni si è imposto come uno dei principali argomenti del dibattito pubblico nei maggiori paesi occidentali. Un tema che non ha riguardato solo le riflessioni di personalità, manager ed esperti del settore che hanno partecipato al World Economic Forum di Davos, ma soprattutto le istituzioni europee. In Europa, infatti, dopo mesi e mesi di trattative fra Commissione, Parlamento e Consiglio Europeo si è arrivati finalmente alla definizione di un primo tentativo di un complessivo inquadramento normativo dell’AI. Portando all’approvazione all’assemblea Ue del primo Regolamento sull’intelligenza artificiale.
Ed è interessante notare che tale regolamento sia stato proposto tra gli altri da un eurodeputato italiano come Brando Benifei, attuale capogruppo del Pse al Parlamento europeo. Un dettaglio quasi paradossale se pensiamo che un tema come quello dell’impatto dell’intelligenza artificiale, sia caduto nell’indifferenza generale dei nostri principali leader politici, nonostante la sua importanza. Il presidente del Consiglio, nonostante i suoi numerosi incontri con i magnati delle Big tech come Bill Gates e Elon Musk, non se n’è sostanzialmente occupata (esclusi alcuni piccoli recenti interventi a margine degli incontri internazionali). Né sul tema si è pronunciata attivamente Elly Schlein, nonostante proprio al suo partito appartenga il promotore di questo primo tentativo normativo. Come del resto non trova un serio approfondimento negli altri leader della maggioranza o dell’opposizione (fatta eccezione per alcuni editoriali di Matteo Renzi).
Un silenzio molto preoccupante perché nel migliore dei casi indica la dabbenaggine della nostra classe politica di fronte ad uno strumento la cui crucialità è paragonabile a quella dell’energia elettrica nei confronti della produzione industriale del primo novecento. L’intelligenza artificiale e gli algoritmi predittivi, non si pongono infatti solo come delle innovazioni che hanno portato delle evoluzioni tecniche nel circuito high tech, né come dei mutamenti limitati che hanno colpito solo alcuni “anelli” delle catene del valore. Ma si presentano, invece, come degli agenti del cambiamento la cui dirompenza pone degli interrogativi cruciali al sistema economico-produttivo, alla società, ai pubblici poteri, al mercato del lavoro e agli equilibri strategici.
Tali cambiamenti oltre ad essere dirompenti si muovono in un contesto caratterizzato da interdipendenze e diffusioni dell’innovazione, che col loro manifestarsi, come ha sottolineato nei suoi ultimi libri Marco Magnani (da ultimo “L’onda perfetta: Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti”, Il Sole 24 ore edizioni), obbligano l’intero circuito produttivo a ripensare il modo in cui si produce, consuma e ci si pone nel contesto sociale e lavorativo. Tanto che un recente studio del Fondo monetario internazionale (Fmi) prevede che l’AI avrà conseguenze sulle attività di un decimo dei lavoratori su scala globale e del 60 per cento dei lavoratori nelle democrazie avanzate generando effetti dirompenti (che ne ridisegneranno le strutture e la conformazione), sia a livello commerciale sia sul piano dell’occupazione, sui mercati nel corso di quest’anno.
Un impatto che però porta con sé oltre a preoccupazioni economiche e sociali, anche problematiche costituzionali e strategiche.
In questo senso la concentrazione di dati, informazioni e conoscenza in seno agli oligopoli digitali, pone la necessità di una tutela dei diritti dei cittadini di fronte all’utilizzo dei dati e ai rischi del “capitalismo della sorveglianza” (come direbbe la studiosa Shoshanna Zuboff), oppure nel caso inverso, con una maggiore preponderanza statale, agli abusi dello “Stato della sorveglianza” . Soprattutto perché sulla tutela dei dati si giocano non solo la libertà dei cittadini, ma anche sfide strategiche che non riguardano solo la difesa dei diritti costituzionali, ma anche profonde esigenze di sicurezza. Tanto che in una sua precedente intervista il presidente della Commissione Algoritmi, padre Paolo Benanti, ha affermato che l’importanza di un data center oggi è paragonabile a quello di una base Nato durante la Guerra fredda.
Un’ulteriore prova delle conseguenze cruciali che la transizione digitale pone alle principali democrazie sviluppate e che il nostro Paese non può sottovalutare. Lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha più volte sottolineato che tali trasformazioni digitali si fanno portatrici di un “progresso inarrestabile” che però deve essere affrontato per mettere al centro di questa rivoluzione tecnologica la persona umana e le nostre garanzie costituzionali. Una preoccupazione propria dei maggiori leader europei oltre che del nostro Capo dello Stato, ma che trova sul tema di una governance comune del digitale, il sostanziale silenzio del mondo politico e un attenzione un po’ superficiale da parte di buona parte della stampa, nonostante gli ultimi del presidente Paolo Benanti.
Una governance politica del digitale che ha auspicato anche lo stesso ceo di Open AI, Sam Altman, che ha proposto di affidare la gestione delle regole per l’IA ad “un’Agenzia globale sul modello di come opera l’Agenzia sull’energia atomica”. Un tema che purtroppo i maggiori leader politici italiani tendono a sottovalutare nettamente, trovando nella bassa inclusione digitale in seno al nostro Paese più un alibi da sfruttare per ignorare tale questione, che un problema urgente da risolvere. L’Italia a questo proposito, certamente non svetta nelle classifiche dei Paesi più aperti al digitale. L’indice europeo per la digitalizzazione (Desi) ci dice, infatti, che (nel 2023) ricopriamo il 18° posto su 27 Paesi comunitari, per quanto riguarda la digitalizzazione. Una bassa inclusione digitale che ha conseguenze sia sulla consapevolezza di queste trasformazioni da parte dei cittadini sia sulla capacità di affrontare le sfide della transizione digitale. Una lacuna che si somma sia alla bassa competitività del nostro Paese (dovuta al combinato disposto di “mal di crescita” e “mal di concorrenza”) che ai suoi mali atavici, impedendone la crescita.
Un problema che andrebbe affrontato dalle forze politiche anche alla luce dei parametri del Pnrr, che tra i suoi obiettivi ha proprio quello della transizione digitale.
Tutte sfide epocali che sono soffocate dal troppo cicaleccio quotidiano. Il quale oltre che a offuscare i veri problemi del Paese pone priorità stravaganti: dalla mancata disciplina degli ambulanti alla questione dei balneari, dal nuovo libro del generale Vannacci alle paturnie del politicamente corretto.
Ebbene, in questo scenario non sarebbe meglio abbandonare tali questioni demagogiche e strumentali e concentrarsi invece sui veri problemi che emergono dalle conseguenze dell’infosfera e della AI? Non sarebbe più opportuno seguire il mandato già tracciato dal Capo dello Stato e dai principali Paesi occidentali cercando un dialogo europeo e transatlantico sui temi del digitale?
Tutti interrogativi di cui dovrebbe occuparsi la classe politica. Possibilmente prima che questi problemi inizino ad occuparsi senza freni di noi. Come del resto sta già avvenendo.