Conversazione sul Medio Oriente con l’ex inviato Usa per l’Iran sotto l’amministrazione Trump e vice consigliere per la sicurezza nazionale di Bush jr. La differenza nelle reazioni alla situazione nel Golfo, con gli attacchi delle milizie sostenute da Teheran, è “il classico scenario ‘gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere’”, dice
La decisione dell’amministrazione Biden di reinserire gli Houthi nella lista dei Specially Designated Global Terrorist, come aveva deciso l’amministrazione precedente, quella Trump, è “una mossa a metà”. A dirlo a Formiche.net è Elliott Abrams, che nell’amministrazione Trump è stato rappresentante speciale per l’Iran e il Venezuela. Oggi è senior fellow presso il Council on Foreign Relations di Washington. In passato ha ricoperto, tra i molti incarichi, quello di vice consigliere per la sicurezza nazionale del presidente George W. Bush, supervisionando la politica mediorientale alla Casa Bianca.
Come mai è una mossa parziale?
Gli Houthi sono ora nella lista dei Specially Designated Global Terrorist ma non in quella delle organizzazioni terroristiche (Foreign Terrorist Organization). Sembra che l’amministrazione Biden abbia dovuto far fronte a pressioni, sia da parte del Partito democratico sia, ancor più, da parte del Partito repubblicano. Se la minaccia percepita del terrorismo Houthi è abbastanza significativa da giustificare un’azione militare, diventa logicamente e politicamente insostenibile tenerli fuori dalla seconda lista. Credo che l’amministrazione si sia sentita sempre più esposta e abbia riconosciuto la necessità di agire. Pur apprezzando il primo passo, spero ancora che compiano il secondo.
Che cosa cambierebbe?
C’è una distinzione cruciale tra le due designazioni. Alle FTO è vietato l’ingresso negli Stati Uniti e non possono ottenere il visto. Questo potrebbe non essere direttamente rilevante per gli Houthi. Ma c’è altro aspetto significativo: è un reato fornire loro supporto materiale. Ciò significa che chiunque sia coinvolto in attività come il trasferimento di denaro o di armi potrebbe essere perseguito penalmente.
Perché l’amministrazione Biden non ha ancora deciso di compiere questo passo?
La cancellazione del gruppo dalla lista, decisa dall’ex presidente Donald Trump, è avvenuta il primo giorno dell’amministrazione Biden, il che fa sorgere spontanea una domanda: perché? All’epoca la motivazione era legata alle preoccupazioni relative agli aiuti umanitari. Si sosteneva che la legge, che proibisce il sostegno a un’organizzazione terroristica straniera, avrebbe potuto scoraggiare le organizzazioni umanitarie, convincendole a non fornire assistenza alla popolazione dello Yemen. Trovo questo ragionamento abbastanza discutibile, tre anni fa e ancora adesso. La ragione attuale è ancora legata alle preoccupazioni per la consegna degli aiuti umanitari in Yemen. Tuttavia, se siete un’organizzazione come il Programma alimentare mondiale, Save the Children o Catholic Charities, impegnarvi con l’amministrazione dovrebbe fugare ogni timore di azioni legali. Si tratta semplicemente di una preoccupazione infondata.
Questa scelta riguarda in qualche modo l’Iran?
Non posso dirlo con certezza. La decisione presa tre anni fa nel primo giorno dell’amministrazione sembra, in parte, una reazione verso l’operato di Trump, una posizione di opposizione a qualsiasi cosa facesse. Potrebbe anche esserci a monte un errore di valutazione degli Houthi. Sembra che inizialmente si pensasse che i negoziati con l’Iran e gli Houthi sullo Yemen fossero possibili, ma negli ultimi tre anni questi tentativi si sono rivelati vani. Anzi, da allora il comportamento degli Houthi è peggiorato.
Siamo davanti a un conflitto regionale, con gli attacchi degli Houthi e la guerra tra Israele e Hamas?
Non definirei la situazione dell’area come un vero e proprio conflitto regionale, anche se potrebbe degenerare fino a quel punto. A mio avviso, un conflitto regionale vero e proprio si potrebbe configurare con una guerra tra Israele e Hezbollah o con attacchi quotidiani degli Houthi contro l’Arabia Saudita e gli Emirati. Quello a cui stiamo assistendo attualmente, come il confronto tra Iran e Pakistan, non rientra nella definizione di conflitto vero e proprio. Si tratta piuttosto di vari attori che prendono di mira gruppi specifici, come i baluci, piuttosto che impegnarsi in ostilità dirette e diffuse tra loro.
Che cosa potrebbero fare gli Stati Uniti e i loro alleati per arginare l’Iran e i suoi proxy?
In primo luogo, si può intensificare significativamente le azioni contro i proxy. Le attuali misure adottate dagli Stati Uniti nei confronti degli Houthi, ad esempio, sembrano insufficienti, dal momento che questi ultimi continuano a compiere attacchi, come quelli recenti contro le navi. Alcuni hanno suggerito che gli Stati Uniti potrebbero aver eliminato il 20-30% delle capacità degli Houthi, ma uno sforzo più robusto e sostenuto potrebbe mirare a eliminare una porzione maggiore, forse fino al 90%. Tuttavia, è fondamentale riconoscere che alla radice del problema c’è l’Iran. Senza il sostegno iraniano, gli Houthi, Hamas, Hezbollah e le milizie sciite in Iraq non sarebbero in grado di compiere queste attività. Nonostante il riconoscimento diffuso del flusso di denaro e di armi dall’Iran a questi gruppi, è storicamente mancata una ripercussione significativa per le azioni dell’Iran.
In che senso?
L’Iran sembra aver goduto di un livello di immunità per decenni, anche nei casi in cui le azioni iraniane hanno causato la morte di americani, come l’attentato alle Khobar Towers, l’attentato alla caserma dei Marines a Beirut e gli eventi della guerra in Iraq. Gli Stati Uniti hanno raramente affrontato direttamente l’Iran, con notevoli eccezioni come l’uccisione di Qassem Soleimani e un confronto navale alcuni decenni fa. Una posizione più assertiva potrebbe comportare la comunicazione all’Iran che se una milizia sciita, gli Houthi o gruppi simili uccidono americani in Iraq o in Siria, la risposta andrebbe oltre gli attacchi ai proxy. Gli Stati Uniti colpirebbero direttamente gli asset iraniani, inviando un chiaro messaggio all’Iran di limitare i suoi proxy.
Che cosa si intende per asset iraniani?
Quando ne parlo, alcuni esprimono la preoccupazione di evitare una potenziale Terza Guerra Mondiale. Vorrei chiarire: non sto invocando un conflitto su larga scala o il bombardamento di Teheran. Mi riferisco invece a un concetto noto come “scala di escalation”. Alla base di questa scala, consideriamo le boe senza equipaggio al largo della costa iraniana nel Golfo Persico. Prendere di mira alcune di queste boe potrebbe servire come passo iniziale, inviando all’Iran il segnale che questo è il gradino più basso della scala di escalation: nessuna perdita di vite umane, ma una dimostrazione della nostra volontà di prendere di mira le risorse iraniane. Se tali azioni persistono, i passi successivi potrebbero riguardare beni più importanti, come colpire un’imbarcazione iraniana con marinai nel Golfo o addirittura una base navale iraniana. Questo approccio incrementale mira a trasmettere una crescente serietà e pressione sull’Iran. La motivazione non è quella di istigare la Terza Guerra Mondiale, ma di inviare un messaggio chiaro e scoraggiare ulteriori aggressioni. Riflettendo sulla risposta dell’Iran all’uccisione di Qassem Soleimani, è evidente che le sue azioni nei confronti degli Stati Uniti sono state minime. Inoltre, casi storici, come il rallentamento del programma nucleare iraniano dopo l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, evidenziano l’impatto di una dimostrazione di potenza americana.
L’amministrazione Biden non sta facendo abbastanza?
Una critica che rivolgo all’attuale politica di Biden è la sua riluttanza a comunicare in modo risoluto che ci saranno ripercussioni se le azioni aggressive non cesseranno. Il messaggio, sia in privato sia in pubblico, dovrebbe essere chiaro: ci saranno conseguenze. Attualmente, la comunicazione di Washington enfatizza il desiderio di evitare un conflitto più ampio, ma ciò trasmette implicitamente la mancanza di volontà di far pagare all’Iran il prezzo del suo sostegno ai proxy. È fondamentale correggere questa situazione e inviare un messaggio più forte.
Come valuta la risposta dell’Unione europea alla situazione nel Mar Rosso?
In questo caso si tratta di garantire la libertà di navigazione e di mantenere aperto l’accesso al Canale di Suez davanti ad assalitori che non sono nemmeno un governo bensì sono un gruppo terroristico o come volete definirli, ma certamente non sono uno Stato riconosciuto. Le loro azioni interferiscono con la libertà di navigazione in una delle vie marittime più critiche del mondo. È l’esempio più semplice e diretto in cui ogni Paese europeo dovrebbe essere pronto a contribuire in qualche modo. E anche se in alcuni casi potrebbero non essere in grado di fare molto, in linea di principio dovrebbero essere aperti a fornire assistenza. Per questo, sono deluso dalla reazione complessiva europea. È un altro esempio che evidenzia il divario tra le prospettive americane ed europee sulla potenza militare: il classico scenario “gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere” per citare Robert Kagan.
Italia e Francia stanno spingendo per una partecipazione di Paesi extra Unione europea alla missione navale che i 27 dovrebbero concordare nelle prossime settimane. Potrebbero riferirsi agli Stati del Golfo?
Il Bahrain è coinvolto in teoria, ma l’attenzione sembra concentrarsi sugli Emirati Arabi Uniti e sull’Arabia Saudita. Dubito però che si uniranno a questa missione, soprattutto i sauditi, viste le loro preoccupazioni per i ripetuti attacchi degli Houthi, come testimoniato qualche anno fa. I sauditi sono veramente a rischio e la loro recente retorica enfatizza l’invito alla moderazione piuttosto che la condanna degli Houthi. Sembrano considerare questo come un problema che non devono risolvere ma si aspettano che siano gli americani a gestirlo. Potrebbero avere ragione.
La situazione attuale sta complicando i piani di un graduale disimpegno americano dalla regione?
Credo che abbandonare completamente l’area sia un percorso poco praticabile. Sebbene si possa tentare di ridurre le forze militari nella regione, abbandonarla del tutto è da sempre irrealistico. L’ostacolo principale a un ritiro completo è la presenza dell’Iran, date le alleanze strategiche con Paesi chiave come gli Emirati, i Sauditi, il Bahrein, il Kuwait e Israele. La presenza di una potenza ostile e aggressiva come l’Iran impedisce un’uscita completa. Inoltre, la presenza di Cina e Russia aggiunge un ulteriore livello di complessità. In passato, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul programma nucleare iraniano vedevano Cina e Russia allineate con gli Stati Uniti. Tuttavia, il panorama geopolitico è cambiato e la posizione un tempo unitaria è venuta meno. Oggi, Russia, Cina e Iran appaiono come una coalizione potenzialmente ostile agli Stati Uniti, con l’interesse di creare disordini in Medio Oriente per distogliere l’attenzione americana da dossier come l’Ucraina e la Cina. Questa nuova dinamica potrebbe impedire che vengano adottate risoluzioni forti da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica o del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti dell’Iran.
Come si gestisce, dalla Casa Bianca, una situazione globale che alcuni definiscono di poli-crisi?
Affrontare le numerose sfide globali è davvero un compito impegnativo per il governo degli Stati Uniti. La gestione delle diverse e complesse questioni odierne è una sfida fondamentale. I leader – come il consigliere per la sicurezza nazionale, il segretario di Stato, il segretario alla Difesa e il capo della Cia – devono avere team competenti per affrontare efficacemente queste sfide. Si tratta di incarichi di molte ore di lavoro – in genere 14 ore al giorno – per gestire situazioni complesse. Avere una squadra capace è fondamentale e se l’amministrazione Biden si trova ad affrontare delle sfide, ciò potrebbe essere attribuito alla mancata creazione di una squadra adeguata. È composta da persone forti ma il processo di conferma, che non funziona, rappresenta problema organizzativo negli Stati Uniti. La conferma dei funzionari richiedeva qualche mese fino a pochi anni fa. Ora, invece, può durare sei mesi o più, ritardando la formazione di una squadra completa. Questo ritardo è un problema importante e spetta al presidente garantire un processo di conferma senza intoppi.
È colpa dell’opposizione che a volte tenta di tenere in ostaggio una nomina per ottenere qualcosa in cambio?
Il prolungamento del processo di conferma è un problema costante che va al di là dei negoziati in corso o delle tattiche dell’opposizione. Il problema è cresciuto nel tempo e non è limitato a un partito o a un’amministrazione specifica. La radice del problema risiede nella capacità dei singoli senatori, di entrambi i partiti, di ostacolare il processo. Le regole consentono a un solo senatore di bloccare le nomine, causando ritardi irragionevoli. Una soluzione potrebbe essere l’implementazione di misure che impediscano a un singolo senatore di ostacolare il processo di conferma, come la richiesta di un voto della commissione o l’approvazione di un gruppo di senatori. Lo stato attuale del processo è insostenibile e necessita di una riforma.
Questa situazione caotica nel mondo potrebbe favorire Trump sia nelle primarie repubblicane sia nell’eventuale sfida con Biden per la Casa Bianca?
Penso proprio di sì. La questione della crisi al confine Sud è un fattore importante, secondo i sondaggi è una delle principali preoccupazioni degli elettori. Risolvere questo problema potrebbe avvantaggiare Biden. Tuttavia, quando si tratta di politica estera e della percezione generale di un mondo più caotico, Trump è in vantaggio. Può fare riferimento alla sua presidenza, sostenendo che tre anni fa le cose andavano meglio, soprattutto sulla scena internazionale. Questa narrazione potrebbe contribuire a rafforzare il suo appeal in una potenziale candidatura alla rielezione.