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L’Iran nel mirino. L’attacco dell’Isis spiegato da Dambruoso e Conti

Di Stefano Dambruoso e Francesco Conti

Lo Stato Islamico miete vittime fra fedeli musulmani sciiti, rivendicando la propria identità sunnita. Un messaggio che preoccupa Israele. L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato, e Francesco Conti cultore della materia

Il sanguinoso attentato di mercoledì 3 gennaio nei pressi del cimitero di Kerman, durante una commemorazione pubblica per il quarto anniversario della morte del generale Qassem Soleimani, ha rischiato di provocare una nuova escalation nel conflitto in atto, dopo le accuse del governo iraniano nei confronti di Israele e Stati Uniti. Ma il modus operandi dell’attacco, per la violenza già vissuta in precedenti attentati jihadisti, ha però indirizzato l’attenzione verso altri attori. E infatti l’attacco è stato quasi subito rivendicato da Islamic State Khorasan (IS-K), la branca afgana dello Stato Islamico.

Ma perché proprio in Iran? Questo è stato il primo interrogativo sorto tra gli analisti.

L’Iran, in quanto rappresentante principale della fede sciita nel mondo, è un bersaglio molto importante per la propaganda dello Stato Islamico, che lo annovera fra i suoi avversari principali. Diversi sono stati infatti nel recente passato gli attacchi diretti su suolo iraniano a opera dell’Isis. Nel 2017, un commando dello Stato Islamico colpì il cuore delle istituzioni a Teheran, attaccando il parlamento e il mausoleo di Ruhollah Khomeini, causando la morte di 17 civili. Inoltre, nel 2022, seguendo il collaudato copione degli attacchi contro i luoghi di culto sciiti, i terroristi presero di mira un complesso religioso a Shiraz, uccidendo 15 fedeli. Ma l’Iran è visto come un nemico da parte dello Stato Islamico anche perché è stato uno degli artefici principali delle campagne militari contro il califfato in Siria e Iraq, dove gli Washington e Teheran si sono trovati, da storici nemici, a combattere un nemico comune (John Kerry, l’allora segretario di Stato americano sotto l’amministrazione Obama arrivò perfino a elogiare il contributo militare iraniano). Mentre gli americani hanno privilegiato l’utilizzo dell’aviazione e delle forze speciali, spesso a supporto delle milizie curde e dell’esercito regolare iracheno, la strategia iraniana per combattere lo Stato Islamico ha visto invece una grande mobilitazione di unità paramilitari di fede sciita, che hanno svolto un ruolo decisivo nella dissoluzione territoriale del Califfato. Compiere l’attentato il giorno della celebrazione in ricordo di Soleimani, non ha lasciato pertanto gli analisti sorpresi.

Il generale Soleimani è stato l’artefice principale della campagna iraniana anti Stato Islamico alla guida della Forza Quds (l’unità a proiezione esterna dei Pasdaran). È stato in grado di coordinare abilmente tutte le milizie mobilitate in seguito alle conquiste territoriali dello Stato Islamico nel 2014. Scenario simile si è verificato anche in Siria, dove i Pasdaran della Forza Quds si sono fatti carico di addestrare e inviare sul terreno milizie sciite irachene, afgane e pachistane per combattere a fianco del regime di Assad, contrapposto anch’esso allo Stato Islamico. Dopo la conclusione della campagna militare contro lo Stato Islamico e l’incremento delle tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran nell’estate del 2019, le milizie sciite irachene sono poi passate ad attività antiamericane nel Paese, sempre sotto l’attento sguardo di Soleimani, divenuto quindi una minaccia per la sicurezza nazionale americana.

Un drone strike ordinato dal presidente Donald Trump quattro anni fa ha portato poi all’eliminazione del pericoloso generale. Soleimani era stato anche uno degli architetti principali della strategia che ha visto l’Iran rafforzare i suoi legami (attraverso la fornitura di armi, finanziamenti, e know-how tecnico), con diversi attori armati non-statali in Medio Oriente, realizzando il cosiddetto “asse della resistenza”. Questa coalizione informale comprende i gruppi terroristici palestinesi di Hamas e del Jihad Islamico (di ispirazione sunnita), così come gli Houthi (di fede sciita ma distanti dall’ideologia iraniana), oggi tutti impegnati, unitamente allo storico alleato iraniano Hezbollah, nella guerra che li contrappone a Israele. In aggiunta, tali organizzazioni, sono state nel recente passato impegnate anche a combattere lo Stato Islamico nei loro rispettivi teatri operativi (come, per esempio, Hezbollah in Siria e gli Houthi in Yemen).

Anche Hamas, più volte accostata all’Isis dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per la simile violenza negli attentati, è in realtà un rivale dell’organizzazione jihadista. Lo Stato Islamico si è infatti scagliato contro Hamas in diverse occasioni, allo scopo di ribadire la sua contrarietà al nazionalismo dell’organizzazione palestinese e alle aspirazioni politiche della stessa. Lo Stato Islamico, infatti, non contempla affatto la possibilità di ottenere controllo territoriale senza l’utilizzo delle armi, a differenza di Hamas, che, in quanto erede della Fratellanza Musulmana, è dotata di organi politici e ha pure partecipato alle elezioni palestinesi. Inoltre, l’alleanza strategica con l’Iran e i finanziamenti ricevuti dal regime degli ayatollah sono un altro motivo di feroce critica nei confronti di Hamas da parte dello Stato Islamico, che è molto più intransigente sotto il profilo ideologico.

In occasione dell’attentato in Iran è stato utile rianalizzare le caratteristiche dell’Isis. L’ideologia dello Stato Islamico ha una componente fortemente settaria, che vede negli sciiti forse il nemico principale da combattere. E tanto diversamente da al-Qaeda che, sebbene non abbia mai mancato di criticare lo sciismo, ha sempre messo in primo piano la lotta contro gli Stati Uniti d’America e i regimi mediorientali da essi supportati. La prassi operativa antisciita dello Stato Islamico si fa risalire ad Abu Musa al-Zarqawi, fondatore di al-Qaeda in Iraq e uno dei padri ideologici dell’organizzazione (nonostante sia deceduto molti anni prima della fondazione ufficiale dello Stato Islamico in Iraq), che vedeva nei cittadini iracheni di fede sciita dei traditori, spesso accusati di essere in combutta con gli americani che all’ora controllavano il Paese, oltre che marionette degli ayatollah iraniani. Emblematico esempio della violenza antisciita dello Stato Islamico è stato il massacro di Camp Speicher del giugno 2014 (avvenuto poche settimane prima della proclamazione del Califfato), dove miliziani del gruppo terroristico catturarono cadetti dell’esercito iracheno, ormai allo sbando, e giustiziarono quelli di fede sciita, che ammontavano a più di un migliaio.

Anche la costola afghana dello Stato Islamico, che ha rivendicato l’attentato, segue tale ideologia settaria. Con il ritiro della coalizione internazionale dall’Afghanistan e il collasso del governo centrale a fine estate 2021, i talebani, che avevano passato due decenni come movimento di insorti, si sono dovuti trasformare in forza di governo, capace, almeno in teoria, di soddisfare i bisogni primari della popolazione, compreso quello della sicurezza. I talebani sono quindi anche passati a coordinare operazioni contro la minaccia proveniente da Islamic State Khorasan, peraltro loro rivali anche durante l’insorgenza contro gli Stati Uniti e il governo centrale di Kabul. Diversi sono ancora oggi gli attentati contro la minoranza hazara afghana, gruppo etnico dalla consistente componente sciita e spesso discriminato politicamente per tale ragione. Il modus operandi di Islamic State Khorasan comprende anche attacchi suicidi e assassini mirati contro la nuova leadership, oltre ad attentati contro bersagli riconducibili alle potenze straniere presenti in Afghanistan. È ovviamente questo fattore che preoccupa gli analisti dell’antiterrorismo a livello internazionale. Non è un caso che proprio negli scorsi giorni vi sia stato una riunione di alto livello in Pakistan fra gli esponenti governativi di Islamabad e delegati Talebani, allo scopo di tentare di porre un freno agli attacchi dei Talebani pakistani, che hanno causato più di mille morti nel 2023, numeri mai così alti da sei anni. Tale recrudescenza della violenza in Pakistan, secondo Islamabad e la comunità internazionale, è anche conseguenza della libertà di azione che diversi gruppi terroristici godono in Afghanistan, compresi sia i Talebani pakistani che i jihadisti dello Stato Islamico.

Quest’ultimo gruppo, nell’ultimo periodo, oltre ad aver realizzato i già citati attentati in Iran, ha anche aumentato la sua attività propagandistica e di reclutamento nei Paesi dell’Asia Centrale, soprattutto nel Tajikistan, Paese più vulnerabile alle penetrazioni dell’estremismo religioso. Non è apparso casuale infatti che, uno dei jihadisti arrestati mentre stavano pianificando un attacco contro la cattedrale di Colonia durante le ultime feste fosse di cittadinanza tagika, così come uno degli attentatori proprio dell’attacco a Kerman. La minaccia posta da Islamic State Khorasan potrebbe quindi non limitarsi al teatro afgano, e diventare una preoccupazione più globale nel 2024, come tra l’altro già sottolineato dall’intelligence americana e dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

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