La partecipazione diretta della Marina Militare ad iniziative come la Rimpac o, in generale, ai processi di natura prettamente militare o con risvolti politici (che è caratteristica intrinseca della componente navale delle forze armate di ogni nazione) nell’Indo-Pacifico sono tappe obbligate per l’Italia
La teoria italiana del “Mediterraneo allargato” e la “Indo-Pacific Strategy” statunitense rispondono alle stesse esigenze da due prospettive diverse: mentre per Roma è fondamentale garantire la libertà di navigazione nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso quali vie d’accesso al Mediterraneo, per gli Stati Uniti è necessario ricalibrare gli equilibri di potenza in quelle acque, con una politica che ha espanso e revisionato la “Indo-Pacific rebalancing Strategy” di Obama ed ha rappresentato una linea di continuità della politica estera di Washington, superando anche le profonde differenze di gestione della diplomazia tra Trump e Biden.
Entrambe queste teorie strategiche hanno un minimo comune denominatore nella stabilità geopolitica del “Cindoterraneo” e la conditio sine qua non è il contenimento delle ambizioni cinesi e delle crisi che, da limitate e regionali, possono diventare globali, come quella di Bab el-Mandeb attuale.
Che gli Stati Uniti vedano nella Cina il principale competitor sullo scenario mondiale è cosa ben nota, ma lo è anche l’atteggiamento “moderato” della gran parte dei governi europei, non troppo disposti ad invischiarsi in uno scontro diretto con i cinesi, percependo Mosca come una minaccia più incombente e sulla quale concentrarsi.
Eppure, con lo sviluppo dell’Asia e con le “vie della seta” terrestri chiuse, fintanto che permane il braccio di ferro con Putin, il Mediterraneo è tornato a rivestire il proprio ruolo di “connettore strategico” tra Oriente e Occidente, pur confermandosi come un mare soggetto a “territorializzazione” ormai sistemica e, dunque, a rischio latente di conflitti. Il controllo dei “colli di bottiglia” come Gibilterra, Suez, Bab el-Mandeb o lo stretto di Malacca, è diventato essenziale ed anche Russia e Cina lo hanno compreso, come la presenza di naviglio delle due potenze revisioniste nel Mediterraneo ha fatto emergere.
È in questo contesto che la presenza della Marina Militare italiana parteciperà quest’anno – e per la prima volta – all’esercitazione Rim of the Pacific (Rimpac) e che, nella seconda parte del 2024, il Gruppo Portaerei Cavour sarà schierato nell’Indo-Pacifico.
Non si tratta, logicamente, delle prime navi militari italiane che andranno a solcare le onde di quei mari – area d’interesse privilegiato anche per quella che fu la Regia Marina – considerati il ruolo importante della Marina nell’Operazione Atalanta, la presenza della FREMM Fasan nell’attuale contesto della crisi del Mar Rosso e, non da ultimo, il tour nei porti asiatici del PPA Morosini dello scorso anno, ma per la prima volta Roma parteciperà alla più importante ed estesa esercitazione in quello che, a tutti gli effetti, sarà lo scacchiere di riferimento per la preparazione del prossimo confronto egemonico-sistemico tra potenze mondiali.
Per l’Italia partecipare alla RIMPAC significa approntare uno strumento logistico e gestionale importante, tale da garantire l’operatività fuori area della sua flotta d’altura, nonché, sotto il profilo politico, rafforzare il proprio legame con gli Stati Uniti, che in quella di Roma riconoscono una Marina partner tra le più importanti.
Il Programma Navale del 2014 (meglio noto come “Legge Navale” o “Legge De Giorgi”) aveva come concetto basico, che ancora guida le scelte strategiche e di procurement della Marina Militare, l’idea che quella italiana avrebbe dovuto essere una marina in grado di operare anche fuori dalla propria area di competenza diretta – invero ristretta per una nazione che aspira ad essere una potenza navale – nel Mediterraneo, più o meno allargato che fosse.
Da qui lo sviluppo di unità multiruolo come le Fremm e i Pattugliatori polivalenti d’altura (questi ultimi vere unità-bandiera della Legge Navale), cui si sono affiancati i decisivi progressi per lo sviluppo del programma F-35 e di rafforzamento della componente aerea della Marina.
L’ambizione della Legge Navale del 2014 era quella di dotare l’Italia di uno strumento militare marittimo adeguato ed in grado di essere un “accrescitore di potenza” (anche economico-commerciale). Tutto sommato, con il suo programma di navi all’avanguardia ed integrate nella dimensione multidominio che connota il conflitto contemporaneo, la Legge De Giorgi si era inserita nel solco del pensiero navale che a fine Ottocento aveva portato, sulla scia delle intuizioni e dei provvedimenti degli ammiragli Pacoret de Saint Bon e Brin, la Regia Marina ad avviare un programma di ammodernamento e potenziamento della flotta tale da consentire all’Italia di avere alte ambizioni nel mondo.
Secondo la Dottrina Strategica Marittima del 2002, l’estensione del “Mediterraneo allargato”, in altre parole la capacità di profondità strategica nazionale, è collegata al grado di potenza militare, politica ed economica che l’Italia può esprimere quale “Sistema Paese” in una determinata fase storica.
Per alcuni osservatori, un “Mediterraneo allargato” che arrivi a lambire le coste del Pacifico non sarebbe un disegno strategico perseguibile per Roma, ma solo un tentativo di “nascondere” alcuni problemi strutturali della postura geopolitica italiana nel mondo, sovradimensionata nelle sue ambizioni, secondo gli aderenti a questa corrente, rispetto alle reali capacità del Paese.
Nei fatti, la partecipazione diretta della Marina Militare ad iniziative come la Rimpac o, in generale, ai processi di natura prettamente militare o con risvolti politici (che è caratteristica intrinseca della componente navale delle forze armate di ogni nazione) nell’Indo-Pacifico sono tappe obbligate per l’Italia. La “globalizzazione competitiva” richiede, infatti, di adottare una postura “assertiva” anche in regioni geograficamente lontane, ma in cui si verificano eventi che hanno effetti diretti anche nel proprio “giardino di casa”. In particolare, il Mediterraneo è soggetto a spinte e controspinte provenienti dalle regioni vicine, come le conseguenze della crisi del Mar Rosso sta a evidenziare e questo obbliga Roma ad estendere necessariamente la propria area d’interesse diretto e, dunque, la sua capacità e volontà di proiezione di potenza, fosse anche solo per “mostrar bandiera”.