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Ora il problema è Hezbollah. Conversazione con Dentice a quattro mesi dal 7 ottobre

Il rischio adesso è davvero l’escalation regionale. “La crisi è già una nuova pagina per il futuro della regione, avendo già assunto dimensioni che vanno ad alterare gli equilibri dei singoli Paesi mediorientali”, spiega Dentice

Il quarto mese dopo il massacro del 7 ottobre, con cui Hamas ha dato inizio all’escalation di violenza che ha portato all’invasione israeliana della Striscia di Gaza, inizia sotto nubi tetre. Una salva di razzi piovuta su Israele dal nord, dal Libano, dunque per mano di Hezbollah, che arriva mentre il segretario di Stato statunitense Antony Blinken torna a lavorare per “fermare l’escalation” con un tour regionale, le Israeli defense forces che dichiarano “smantellata tutta la rete militare di Hamas nel nord della Striscia” e uno scoop del Washington Post preoccupante: gli Stati Uniti temono che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu possa lanciare una guerra totale contro Hezbollah per stabilizzare la propria posizione e salvare la sua carriera politica.

Come è stato per ognuno di questi mesi di guerra sin dalle prime ore dell’attentato di Hamas, con Giuseppe Dentice — head del Mena Desk al CeSI — proviamo a inquadrare il contesto attuale e delineare scenari futuri. “La situazione si sta complicando e non che fosse inaspettato, ma forse si è data poca attenzione al fatto che il confine nord, quello libanese, potesse reggere con soltanto scambi di colpi a bassa intensità, mentre sia Hezbollah che Israele hanno alzato rispettivamente al livello dello scontro”.

Gli attacchi israeliani oltre confine sono aumentati e hanno assunto un livello di spettacolarizzazione con l’assassinio mirato del numero due dell’ufficio politico di Hamas, Saleh al Arouri, colpito a Beirut in un probabile raid israeliano in cui si è fatta molta attenzione a non centrare bersagli di Hezbollah, ma si è comunque attaccato all’interno della capitale libanese, ossia in territorio neutro rispetto al conflitto in senso stretto. “Hezbollah mantiene una certa calma, ma questo tipo di vicende possono far saltare gli equilibri e il conflitto, già regionalizzato in termini di crisi, potrebbe effettivamente allargarsi anche nel quadro degli scontri”.

Qui il convitato di pietra è anche l’Iran, punto di riferimento con i Pasdaran di certi attori regionali come Hezbollah, ma Teheran è effettivamente macchinatore? “In parte, perché ciò che emerge con Hezbollah o con gli Houthi (i miliziani che stanno destabilizzando l’Indo Mediterraneo, ndr) e anche con le singole milizie sciite in Siria o Iraq, che sono tutt’altro che astratte dal contesto iraniano: tutti sembrano voler valorizzare le proprio dinamiche individuali e la loro agenda di interessi anche oltre a quello che è il pensiero centrale nella Repubblica islamica”.

E queste singole agende potrebbero essere ciò che determina l’allargamento, senza sottovalutare quella che è la situazione interna ai Territori palestinesi, con la situazione tragica a Gaza e i rischi di espansione in Cisgiordania. “Questo esecutivo, anche quello di guerra, difficilmente potrà avere lunga vita e resistere dopo la guerra, ma il problema è che adesso i ministri più falchi legati al sionismo chiedono maggiore libertà di azione aggressiva contro i palestinesi, e questo va in contrasto anche con il Piano Gallant per la fase post-bellica: dinamiche che spiegano quanto la situazione sia difficile da gestire a lungo andare in termini sia di equilibri interni alla maggioranza israeliana, sia di rapporti israelo-palestinese”.

D’altronde, come il blocco della riforma della giustizia racconta, Netanyahu per la sua sopravvivenza ha bisogno anche della sponda politica di quegli attori con visioni più estremiste, ma in futuro potrebbe essere portato a doverne rinunciare, a compiere scelte dure per ragioni di ordine superiore. Anche perché dalla stabilità interna di Israele, dalla questione palestinese, dipendono anche gli equilibri regionali. “Prendiamo l’omicidio di al Arouri, avvenuto mentre si stava mediando un nuovo accordo per il rilascio di ostaggi (val la pena ricordare che ancora sono circa 130 quelli in mano a Hamas, ndr), anche spinto dagli Usa, ma tutto è saltato. Gli attori arabi non perdono occasione di criticare la condotta dell’esecutivo Netanyahu e questa vicenda ne è nuova occasione: senteno la guerra a Gaza come un problema ulteriore per le loro situazioni domestiche. Questo significa che la crisi è già una nuova pagina per il futuro della regione, avendo già assunto dimensioni che vanno ad alterare gli equilibri dei singoli Paesi mediorientali”.

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