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Patto di stabilità, più flessibilità ma occhio alla crescita. Il commento di Rossi

Di Emilio Rossi

La situazione della finanza pubblica italiana rimane grave e tale da richiedere un severo percorso di aggiustamento che prescinde dalle pressioni o dalle regole europee. Un rapido processo di aggiustamento delle finanze pubbliche è dunque necessario, ma ricordando come nel valutare la sostenibilità della finanza pubblica, tra l’Italia e l’Unione europea c’è un terzo incomodo: il mercato. Il commento di Emilio Rossi, Oxford Economics e Osservatorio del Terziario di Manageritalia e membro del Gruppo dei 20

Il nuovo Patto di stabilità concordato il 20 dicembre scorso dall’Ecofin è il punto di partenza delle negoziazioni che avverranno nel Parlamento europeo per l’approvazione entro aprile 2024. Anche se la proposta del Consiglio non è da considerarsi definitiva, difficilmente verrà cambiata in maniera sostanziale. Le prime considerazioni da fare (o meglio, da ricordare) sono assolutamente ovvie, anche se la maggior parte degli osservatori nostrani sembra ignorarle o quantomeno trascurarle: le regole del nuovo Patto rimarranno in vigore per almeno un paio di decenni (al netto di eventuali cigni neri) e hanno come obiettivo principale di assicurare la stabilità delle finanze pubbliche di tutti i paesi dell’Unione europea, obiettivo a sua volta cruciale per il mantenimento di un percorso di convergenza tra le economie dell’area e per la stabilità della moneta.

Ne discende una ulteriore considerazione altrettanto ovvia: non è corretto valutare il Patto in funzione della sua convenienza per l’Italia, tantomeno nel lasso temporale di interesse per i nostri partiti. Tenendo presenti questi obiettivi, il nuovo Patto è nel complesso migliorativo rispetto a quello precedente del 1997 e poi sospeso a causa della pandemia. Nella versione uscita nei giorni scorsi dal Consiglio i principi cardine restano gli stessi: mantenere il deficit al di sotto del 3% del Pil e il debito al di sotto del 60%. Ma nelle nuove regole sono state introdotte alcune flessibilità: un piano pluriennale di 4 o 7 anni di rientro per il deficit, la distinzione tra i paesi con debito/pil tra 60% e 90%, l’esclusione degli oneri degli interessi sul debito per le spese relative a transizione ambientale, alla difesa e a maggiori interessi sul debito dovuti all’ondata inflazionistica.

Allo stesso tempo, sono stati introdotti alcuni elementi di rigidità e anche di difficoltà interpretativa che lasciano margini di intervento politico in sede di applicazione. In particolare, il processo di aggiustamento previsto per i paesi con un rapporto debito/Pil superiore al 90% dovrà rispettare il vincolo di riduzione di tale rapporto di almeno un punto percentuale all’anno e allo stesso tempo prevedere un disavanzo strutturale inferiore all’1,5% del Pil.

Nonostante le flessibilità introdotte nel nuovo Patto, permangono molti dubbi sulla sua realizzabilità, al contrario di quanto sostenuto dal Consiglio europeo. La situazione media delle finanze pubbliche dei paesi europei è infatti molto deteriorata rispetto agli anni immediatamente pre-pandemici. Inoltre, e questo è un punto cruciale, la crescita economica attesa nei prossimi anni e nel lungo termine sarà molto più contenuta di quanto le proiezioni della Commissione lascino intendere. Questo ridurrà significativamente lo spazio di manovra a disposizione dei governi per il risanamento delle finanze pubbliche e allo stesso tempo ottemperare ai vincoli concordati per la difesa e per la transizione energetica/ambientale.

Per esempio, secondo uno studio di France Stratégie, co-autore del piano francese per Fit for 55, gli investimenti necessari in Francia per coprire gli investimenti in transizione energetica ammontano al 2,5% del Pil per ogni anno da qui al 2030… e la Francia parte da una situazione di vantaggio rispetto alla decarbonizzazione grazie alle centrali nucleari. Il combinato disposto di sopravvalutazione della crescita del Pil e di sottovalutazione dei costi attesi su vari fronti (ambiente, difesa, digitalizzazione) per pressoché tutti i singoli Paesi europei espone al rischio di generare una spinta deflattiva per l’intera area europea.

I motivi della bassa crescita europea sono noti e non afferiscono tanto alla finanza pubblica quanto a politiche strutturali e istituzionali – ma il Patto di Stabilità sostanzialmente evita di dare raccomandazioni (o stabilire vincoli) ai singoli Paesi su come intervenire per rilanciare la crescita. Tipicamente si sostiene (e non solo da parte dei sovranisti) che sia prerogativa dei singoli Stati sovrani decidere come affrontare i nodi strutturali delle proprie economie e che quindi le istituzioni europee devono limitarsi a dare raccomandazioni. Occorre invece prendere coscienza al più presto del fatto che andare verso una Europa unita (in qualsiasi forma istituzionale la si intenda) richiede inevitabilmente la cessione di gradi crescenti di sovranità nazionale.

È positivo quindi che il Patto di Stabilità preveda l’intervento della Commissione sui piani di aggiustamento – ma allo stesso tempo è necessario che il Patto di stabilità determini anche dei paletti quantitativi su come rilanciare la crescita. Per quel che riguarda l’Italia, il Pnrr contiene già delle indicazioni vincolanti sui temi e sulle riforme principali da affrontare per il rilancio strutturale della crescita: digitalizzazione, giustizia, pubblica amministrazione, concorrenza, fisco e educazione/formazione. Pensare che, a fronte delle resistenze politiche, questi vincoli siano rispettati in maniera sostanziale e nella direzione di una modernizzazione del Paese nel giro di pochi anni è quantomeno ingenuo.

Sarebbe stato quindi utile reiterare e quantificare meglio nel Patto di Stabilità tali indicazioni e vincoli. Una ultima considerazione riguardante l’Italia. C’è un dibattito molto acceso su quanto questo Patto sia punitivo nei confronti del nostro Paese. Tuttavia, nella sostanza gli obiettivi indicati appaiono essere il minimo indispensabile per un Paese con un debito al 140% del Pil e con un deficit/Pil previsto dal governo italiano al 4,3% nel 2024. La situazione della finanza pubblica italiana rimane grave e tale da richiedere un severo percorso di aggiustamento che prescinde dalle pressioni o dalle regole europee. Un rapido processo di aggiustamento delle finanze pubbliche è dunque necessario, ricordando un’altra ovvietà: su come valutare la sostenibilità della finanza pubblica, tra l’Italia e l’Unione Europea c’è un terzo incomodo… il mercato.

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