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Perché la presidenza italiana del G7 può contribuire al dialogo tra Oriente e Occidente

Di Paolo Garonna

Il G7 italiano potrebbe prendere l’iniziativa di favorire la partecipazione di Cina e India, le due potenze emergenti. Non è detto che questi Paesi accettino di partecipare (soprattutto insieme), ma invitarli facendo valere un criterio obiettivo di membership sarebbe un gesto forte di riconoscimento di status, di attribuzione di responsabilità e di apertura ai cambiamenti negli equilibri globali. L’intervento di Paolo Garonna, professore di Economia all’Università Luiss di Roma e presidente della European League for Economic Cooperation-Italia

Il G7 a presidenza italiana del 2024 rappresenta una grande opportunità non solo per il nostro Paese, che avrà modo di far valere le sue capacità di politica estera e di leadership internazionale, ma per lo stesso G7 che ha bisogno di ritrovare il suo ruolo e la sua efficacia in un mondo con una governance globale debole e in grave difficoltà nel gestire le complesse sfide che si prospettano.

Creato a metà degli anni ’70 dopo il crollo del sistema monetario internazionale a cambi fissi, lo shock petrolifero e la crisi finanziaria, per impulso soprattutto di Giscard d’Estaing e di Helmut Schmidt, il G7 si proponeva di riunire informalmente i leader delle maggiori potenze per promuovere il dialogo e la comprensione reciproca e favorire perciò le decisioni da prendere nelle opportune sedi formali nazionali ed internazionali. L’informalità, la flessibilità e il volontarismo del gruppo facevano da pendant al formalismo, alle rigidità e alla farraginosità delle organizzazioni internazionali, di cui rappresentava il complemento piuttosto che l’alternativa, organizzazioni che già allora manifestavano evidenti segni di logoramento e necessità di riforma. Insomma, il G7 doveva essere, ed in effetti fu, la testa e il cuore politico del vertice della comunità internazionale. Invece di spiazzare i meccanismi legittimi del multilateralismo, sanciti dai Trattati (come il Consiglio di sicurezza o l’Ecosoc), come gli rimproveravano il blocco sovietico e i Paesi non allineati, il G7 doveva preparare il terreno e facilitare quei meccanismi, e magari promuoverne la riforma.

A mezzo secolo da questa originaria impostazione, è evidente che il G7 oggi ha completamente mutato fisionomia e funzione. Soprattutto non rappresenta più le grandi potenze globali. Qualunque indicatore si voglia assumere per definire queste ultime, certamente queste non sono tutti e solo i sette Paesi del gruppo. Per la verità, i Paesi sarebbero otto, perché negli anni ’90 si era associata al G7 anche la Russia, ma dopo l’invasione brutale della Crimea nel 2014 la sua membership è stata sospesa. Mancano chiaramente all’appello almeno la Cina e l’India, e questa è un’assenza che pesa e crea risentimento. Il G7 quindi è in definitiva un club di ex. Gli assenti, peraltro, si sono creati un loro club, i Brics +, che diventa sempre più ampio (comprende già 11 Paesi) e sempre più “alternativo” in contrapposizione al G7.

Quest’ultimo viene visto come il blocco occidentale, delle democrazie liberali o – come pensano i suoi antagonisti – delle ex-potenze coloniali. In questo ruolo il G7 si sovrappone all’Ocse che da più di 70 anni raggruppa le maggiori economie di mercato e democrazie pluraliste disponendo, oltre che di un segretariato ampio e competente, di trasparenti procedure di accesso e partecipazione. In un mondo che tende sempre più a frammentarsi in blocchi ideologici e militari contrapposti, il G7, per il fatto stesso di essere quello che è, non riesce a dare un contributo unificante e imparziale alla leadership globale. Questo a prescindere, cioè, dall’agenda, dalle negoziazioni e dai risultati delle sue iniziative.

Significa questo che il G7 non ha più ragione di esistere e dovrebbe essere semplicemente abolito? No, certamente. Al contrario, le ragioni che ne hanno giustificato l’istituzione sono tuttora valide, anzi sono diventate ancora più impellenti e urgenti. La crisi del multilateralismo, soprattutto dopo la guerra in Ucraina, ha raggiunto livelli senza precedenti. Le riforme della governance globale (dall’Onu al Fmi) richiedono un impegno politico e anche personale dei leader delle grandi potenze. Pensiamo a come, ad esempio, la collaborazione tra Usa e Cina, con l’efficace mediazione europea, abbia favorito nel 2023 il successo della Cop28 sul clima, negli Emirati Arabi Uniti. Per ridare vitalità e credibilità al multilateralismo, e per gestire le gravi crisi in corso e quelle che verranno, è fondamentale il contributo di responsabilità e di leadership che il consenso e la collaborazione tra i Paesi avanzati possono dare. A patto però che le grandi potenze non siano solo quelle occidentali, ma anche tutte le altre, senza esclusioni.

La presidenza italiana potrebbe prendere l’iniziativa di favorire la partecipazione di Cina e India, le due potenze emergenti, ai lavori del G7. Non è detto che questi Paesi accettino di partecipare (soprattutto insieme), ma invitarli facendo valere un criterio obiettivo di membership del G7 sarebbe un gesto forte di riconoscimento di status, di attribuzione di responsabilità e di apertura ai cambiamenti negli equilibri globali che si sono determinati negli ultimi 50 anni, e si determineranno nel futuro. Cina e India potrebbero essere invitate intanto in via informale quest’anno, salvo poi se dovesse funzionare confermare e consolidare la loro membership negli anni futuri.

Quali le controindicazioni? Con Cina e India – si potrebbe dire – la composizione del G7 diventerebbe molto più diversificata e disomogenea, rischiando di non portare a nessun risultato. Ma lo scopo del G7 non è mai stato, né deve essere, “decisionale”: sono altre le sedi legittime e democratiche della diplomazia globale deputate a questo scopo (l’Onu e le altre organizzazioni internazionali), col contributo di tutti i Paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo. Si dice anche che con un G7 diverso verrebbe a mancare una sede di coordinamento tra Paesi occidentali, utile e opportuna; ma le occasioni per questo coordinamento sono tante, nell’ambito per esempio dell’Ocse, della Nato, dei summit delle democrazie, ecc., e se ne potrebbero creare altre ad-hoc se necessario. Altri poi potrebbero argomentare che un allargamento così ambizioso e complesso non sarebbe alla portata della presidenza di una potenza minore come l’Italia. Al contrario, io credo che un’iniziativa italiana susciterebbe minori gelosie e diffidenze di iniziative analoghe portate avanti da potenze maggiori (gli Stati Uniti per di più sono sotto elezioni).

Al di là di tutte le difficoltà e i rischi, la ragione principale per provare a ridare ruolo ed efficacia al G7 è che la situazione internazionale è diventata drammaticamente pericolosa e non governata. Ogni inerzia, attendismo o reticenza va messo da parte per cercare di creare un clima di fiducia e di dialogo tra i grandi Paesi e una guida condivisa dell’ordinamento internazionale. L’Italia avrebbe alcuni straordinari vantaggi da far valere: le tradizioni secolari, i luoghi, il patrimonio universale e il modello di vita che tutti ci invidiano. La Puglia poi, dove si terrà il summit dei leader, come ha sottolineato la presidente Giorgia Meloni, “è una terra simbolo dell’abbraccio tra Oriente e Occidente”.



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