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Così Pechino ha tentato (fallendo) di influenzare il voto a Taiwan. Report Aspi

Due reti di disinformazione e propaganda legate alla Cina hanno provato a colpire il partito del futuro presidente dell’isola. Ma società civile e governo hanno minimizzato l’impatto degli attacchi

Le operazioni di influenza cinesi per indebolire i candidati del Partito democratico progressista in vista delle elezioni della scorsa settimana a Taiwan hanno avuto “un impatto minimo sull’integrità dei risultati elettorali, grazie alla resistenza della società civile taiwanese”. A scriverlo è l’Australian Strategic Policy Institute in un rapporto in cui si sottolinea anche il ruolo del governo taiwanese “per i suoi sforzi di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle interferenze elettorali e per la repressione di altre attività illecite, come la diffusione di sondaggi falsi”.

Il voto a Taiwan della scorsa settimana – che ha visto la vittoria di Lai Ching-te del Partito democratico progressista, prossimo presidente e su posizioni molto nette riguardo le minacce cinesi dello status quo dell’isola – hanno aperto un anno di importanti elezioni in molte democrazie, che vedrà i cittadini dell’Unione europea alle urne a giugno si chiuderà con le presidenziali negli Stati Uniti a novembre. La tenuta dei sistemi elettorali è una delle preoccupazioni principali dei governi nelle società aperte davanti a sfide come quella rappresentata dall’intelligenza artificiale, in grado di rendere più facili, convenienti e diffuse operazioni di interferenza e influenza tramite, per esempio, la creazione di deepfake o l’utilizzo di chatbot.

Gli esperti del think tank australiano hanno rilevato almeno due “attori” cinesi cercare di interferire nelle elezioni taiwainesi. Uno sembra essere legato alla più grande rete di account fake sui social media del Partito comunista cinese, nota come Spamouflage o Dragonbridge, che ha legami con il ministero degli Esteri cinese e il Dipartimento del fronte unito. Questa rete ha sviluppato le sue capacità di influenza online utilizzando avatar generati dall’intelligenza artificiale e ha amplificato su molte piattaforme (X/Twitter, Facebook, Reddit, WeChat e TikTok) i contenuti di un documento chiamato “La storia segreta del presidente uscente Tsai Ing-wen” in cui la donna veniva accusata di corruzione e promiscuità. Ma non solo: ha rilanciato accuse contro Lai e Hsiao Bi-khim, candidata alla vicepresidenza del Partito democratico progressista ed ex rappresentante negli Stati Uniti, di essere “pupazzi dell’America” e di aver firmato con Washington un contratto di armi per 2.000 miliardi di dollari taiwanesi (65 miliardi di dollari). Nel mirino è finito anche Joseph Wu, ministro degli Esteri, accusato di molestie con l’hashtag occidentalissimo #MeToo.

Un altro gruppo cinese attivo è “probabilmente” collegato alla prima rete di comportamento inautentico coordinato (CIB) identificata nel rapporto sulle minacce del terzo trimestre 2023 di Meta. Questo secondo “attore” ha condotto operazioni di cyber-influenza più sofisticate, tra cui la diffusione di documenti governativi taiwanesi e un falso test di paternità del dna secondo cui Lai sarebbe avrebbe un figlio illegittimo. Questo gruppo ha colpito anche India, Tibet e Stati Uniti con le sue operazioni.

Secondo l’Australian Strategic Policy Institute è fondamentale che i governi democratici non lascino da sole le organizzazioni che si occupano di contrastare disinformazione e propaganda, che condividano tra loro le informazioni su metodi e obiettivi delle operazioni cinesi e che, con le aziende, rivalutino i loro investimenti esteri diretti nell’industria cinese dell’intelligenza artificiale se i prodotti che stanno finanziando possono essere utilizzati in operazioni contro le democrazie. Quanto alle aziende, invece, il recente annuncio di OpenAI di una serie di nuove iniziative per proteggere l’integrità delle elezioni “è un inizio apprezzabile” ma servirebbe “diffondere pubblicamente i rapporti sulle minacce di attori statali e non statali malintenzionati che utilizzano i prodotti, così come fanno le piattaforme di social media”, si legge nel rapporto.



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