Bgi Group è al centro delle preoccupazioni americane mentre si discute il Biosecure Act. Secondo Anna Puglisi, senior fellow del Center for Security and Emerging Technology della Georgetown University, la strategia di Pechino non è inedita, anzi: come sul 5G, è fatta di sussidi, finanziamenti e sostegno diplomatico in un mercato in cui manca un accesso equo
“Ciò che si vede oggi nelle biotecnologie non è una strategia nuova per la Cina: Pechino l’ha già usata efficacemente per creare Huawei e dominare il 5G”. A scriverlo è Anna Puglisi, Senior Fellow del Center for Security and Emerging Technology della Georgetown University, in un rapporto pubblicato mentre la politica americana discute il Biosecure Act.
La politica statunitense discute sempre più spesso di biotecnologie, e in particolare di genomica, come una questione di sicurezza nazionale. Ma come proteggere e promuovere allo stesso tempo questa tecnologia? “Gli Stati Uniti avranno bisogno di un mix di politiche che includano finanziamenti e sostegno alle aziende statunitensi e alle infrastrutture di ricerca, oltre alle tradizionali strategie di mitigazione”, ha scritto Puglisi.
In particolare, sotto i riflettori americani è finito BGI Group, quotato alla Borsa di Shenzhen e presente in tutto il mondo, anche in Europa (non in Italia), con alcuni uffici e laboratori. Il colosso cinese l’anno scorso è stato inserito dal Pentagono nella lista delle “aziende militari cinesi” operanti negli Stati Uniti dopo che l’intelligence americana aveva dichiarato il ruolo dello stesso nello sforzo globale del governo cinese teso a ottenere informazioni sul genoma umano a livello mondiale. Nei giorni scorsi la Commissione per la sicurezza nazionale sulle biotecnologie emergenti, comitato bipartisan creato dal Congresso con il National Defense Authorization Act relativo all’anno fiscale 2022, ha sostenuto la necessità di imporre restrizioni a BGI Group così come a WuXi AppTec, un’altra società cinese.
Anche grazie alla Belt and Road Initiative, la cosiddetta Via della Seta, BGI Group si è conquistato un ruolo centrale in Cina e nel mondo passando in poco tempo da istituto di ricerca dell’Accademia delle Scienze cinese ad attore globale nel campo della genomica e degli strumenti di sequenziamento. L’ha fatto, però, si legge nel rapporto, lavorando a stretto contatto con le agenzie e i ministeri del Partito comunista cinese, creando quindi “distorsioni del mercato” e minando le norme globali della ricerca scientifica. Il tutto, tramite – come accaduto per Huawei nel 5G – sussidi a ricerca e sviluppo, finanziamenti alle esportazioni, sostegno diplomatico e regole di approvvigionamento per un mercato garantito in Cina, che esclude la concorrenza straniera a causa della mancanza di un accesso equo al mercato. Inoltre, “BGI è stata coinvolta anche in attività più controverse per il governo cinese, come la raccolta di dati genomici dalle minoranze etniche cinesi nello Xinjian”, ricorda Puglisi.
E ancora: BGI Group avrebbe avuto un ruolo centrale durante la pandemia di Covid-19, sfruttata dalle autorità cinesi per raccogliere una vasta mole di dati sul genoma umano a livello mondiale per avere un vantaggio nella “corsa alle armi genetiche” con gli Stati Uniti. Lo ha rivelato il quotidiano Washington Post nei mesi scorsi, ricordando come durante la pandemia Pechino abbia inviato aiuti a numerosi Paesi sotto forma dei sofisticati laboratori portatili di analisi genetica Fire-Eye, prodotti da BGI Group, in grado di rilevare le infezioni da coronavirus tramite l’analisi di frammenti del virus e di svolgere complesse analisi del genoma umano. BGI Group aveva sostenuto di non avere accesso ai dati raccolti dai suoi laboratori portatili. Tuttavia, fonti statunitensi consultate dal quotidiano avevano spiegato che il colosso era stato selezionato da Pechino per realizzare e gestire la China National GeneBank, un vasto archivio governativo dei dati genetici raccolti dalla Cina, che includerebbe già dati e profili genomici di milioni di individui di tutto il mondo.
“La gara non è ancora persa e ci sono passi che gli Stati Uniti e altre democrazie liberali aperte possono compiere per garantire che la ricerca e gli strumenti di scoperta riflettano i loro valori e non siano controllati da un concorrente strategico”, scrive Puglisi nelle sue conclusioni. “Una strategia che promuova il meglio della biologia e fornisca sostegno affinché le aziende statunitensi possano competere in quello che è diventato un campo di gioco impari avrà implicazioni molto più ampie della biologia stessa, ma può fornire un modello per una competizione tecnologica equa ed equilibrata in futuro”, conclude.