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C’era una volta il cinema. Il racconto di Fiori

Di Giuseppe Fiori

Entrare in una sala quando volevi, a film iniziato. Fumare in galleria mentre sullo schermo lo faceva Humprhey Bogart. Baciare la tua ragazza come baciava Marilyn Monroe. Rivivere il piacere della sala cinematografica nella Roma del secondo Novecento. Il racconto di Giuseppe Fiori

“Andiamo al Cinema” è un invito troppo generico, preferiamo dire “Andiamo a vedere… (segue il titolo del film)”, e sembra giusto così perché non ci interessa tanto il luogo quanto l’opera. Ma allora perché continuiamo a dire “Andiamo a Teatro”?

Evidentemente anche il luogo deve avere caratteristiche attrattive così legate all’opera da realizzare quasi una ideale fusione. Non a caso le tragedie greche e le commedie latine hanno creato luoghi straordinari dove ancora oggi continuano ad essere rappresentate.

Così, più modestamente, agli inizi del Novecento, i film hanno “creato” un luogo a parte, appunto la sala cinematografica (a Milano, nel 1907, una delle prime in Europa), e la fusione lessicale è stata immediata: entrambi hanno preso il nome di “cinema”.

Quello su cui vorrei soffermarmi è la mutazione, in gran parte inevitabile, che il cinema come luogo ha dovuto accettare, a cominciare dalle multisale, nate in molti casi dal frazionamento di vecchie, uniche sale. Lo schermo si è abbassato e le poltrone, disposte su gradini, si sono alzate, la pubblicità tra uno spettacolo e l’altro è lunga quanto un cinegiornale del tempo che fu.

E alla fine del film si viene irrevocabilmente espulsi.

Se Jacques Tati avesse visto tutto questo avrebbe girato subito un film disperatamente comico, con Monsieur Hulot nei labirinti bui delle multisale che incappa in proiezioni diverse. Vale allora la pena di ricordare e, nel mio caso di cinefilo ottuagenario, di testimoniare com’era il Cinema che c’è stato e che ancora resiste in qualche rara realtà.

Nei cinema sopravvissuti almeno fino all’inizio degli anni Ottanta c’era una platea e una galleria, con lo schermo montato su un palcoscenico a mezz’altezza tra il pavimento e il soffitto, tanto che chi era in platea doveva alzare la testa mentre gli spettatori in galleria dovevano abbassarla. Nel buio della sala un fascio di luce polverosa usciva dalla cabina di proiezione in fondo alla galleria e arrivava sullo schermo, il film sembrava già iniziare con una piccola magia.

I posti non erano stati assegnati e la possibilità di scelta sembrava più vasta, anche perché si poteva entrare a spettacolo iniziato e scegliere un posto libero con l’aiuto della “maschera” (a Parigi si chiamava ouvreuse) che indicava, con il tenue fascio di luce di una pila tascabile, i posti come su un menù. Il disturbo nei confronti di chi già guardava il film era minimo, come la mancia alla maschera. Una signora che tornava in ultima fila a soddisfare il proprio desiderio di film in maniera esponenziale.

Nelle ultime file, in platea o in galleria, trovavano posto le coppie di innamorati, sia di lungo corso che occasionali: nel buio della sala potevano scambiarsi, indisturbati, lunghi e appassionati baci astraendosi dalla trama del film. Così, per l’incauta simbiosi tra cinema e realtà, sullo schermo potevano apparire intense scene di baci, come quella di Marilyn Monroe in cui educa al bacio Tony Curtis (A qualcuno piace caldo), mentre in fondo alla sala ragazze e ragazzi – tra cui non pochi militari che pagavano metà biglietto – duplicavano la scena come in un specchio.

Alquanto appassionati mi parevano i baci dei film francesi: era come se attori e attrici, dopo aver compiuto un lungo apprendistato nella realtà, avessero seguito anche un corso di recitazione specifico sul tema; e un’autorità in materia era Gérard Philipe, indimenticabile la sua storia d’amore con Micheline Presle in Le Diable au corps che la censura italiana ridusse di un quarto d’ora, privandoci di chissà quanti baci.

C’erano una volta i baci al cinema… Fino a quando della loro scomparsa non si accorse Giuseppe Tornatore che, in Nuovo Cinema Paradiso. assemblò tutti i baci più famosi della storia del cinema in un’unica pellicola.

Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo un uomo, con un ampio vassoio pieno di Popcorn e bomboniere Algida, percorreva lentamente il corridoio centrale senza neanche riuscire a soddisfare tutte le numerose richieste; il vassoio era assicurato da una cinghia intorno al collo del venditore per consentirgli di aver libere le mani. Nelle terze visioni la cinghia era quella che i Ferramenta vendevano per gli avvolgibili di casa e sul vassoio c’erano i più economici bruscolini e le noccioline americane, i cui gusci avrebbero tappezzato la sala alla fine di ogni giornata.

Chi era entrato a film iniziato rivedeva poi le prime scene nello spettacolo successivo, salvo il gusto di alcuni di rivedere il film una seconda volta, quando ne valeva veramente la pena.

Non tutte le gallerie dei cinema erano uguali, alcune erano poco più di un soppalco, il prezzo del biglietto era più basso e venivano scelte solo quando non c’era più posto in platea, altre erano state progettate con eleganza per realizzare una visione simile a quella dei palchi a teatro.

Insomma il tratto essenziale di quelle sale era un numero molto limitato di regole e limitazioni perché lo spettatore cinematografico doveva essere considerato una persona degna di attenzione, che intendeva partecipare alla nuova espressione artistica del Novecento: il cinema!

Il divieto di fumo nelle sale cinematografiche avrebbe potuto segnare, secondo gli apocalittici, la fine ingloriosa delle stesse: come si sarebbe potuto guardare un film americano – in cui Humphrey Bogart e Lauren Bacall fumavano e bevevano di continuo – senza accendersi almeno qualche sigaretta?

In galleria le numerose lucine rosse delle sigarette apparivano come un artificiale cielo stellato pieno di promesse, e infatti, per arginare gli effetti nocivi del fumo passivo, molte sale, appositamente attrezzate, aprivano alla fine di ogni film con uno scenografico effetto speciale il soffitto-tetto in due tronconi. Colonne di fumo acre e stantio salivano verso l’alto a tutto vantaggio dei polmoni di quelli che sarebbero entrati poco dopo.

Il divieto di fumo non condannò i cinema – gli integrati hanno spesso avuto la buona sugli apocalittici – aumentò solo il numero delle gomme da masticare sui vassoi; con il desiderio di trame, di immagini e di volti il cinema non poteva certo scomparire così di colpo!

I cinema erano divisi in tre ordini, proprio come i vagoni ferroviari, e come sui vagoni delle FF. SS. in prima eri seduto su poltrone di velluto rosso cupo mentre in terza su panche di ottimo legno lucido. La programmazione a Roma durava mediamente un paio di mesi e anche più, dato che lo stesso film doveva attraversare tutte e tre le visioni. Neanche il ’68 intaccò questa classista stratificazione cinematografica.

La pubblicità al cinema arrivò, per fortuna, più tardi perché tra uno spettacolo e l’altro venivano proiettati i Cinegiornali – il più famoso era indiscutibilmente la Settimana Incom – e, sempre più spesso i Prossimamente (una forma gentile di pubblicità). Perché in seguito abbiano dovuto chiamarli Trailers rimane oscuro ai più. Insomma l’offerta era ricca e i soldi del biglietto erano ben spesi!

Mi accorgo di aver tralasciato le scomparse sale parrocchiali, una sorta di sezioni staccate delle adiacenti chiese, dedicate principalmente a bambini e ragazzi, la cui programmazione non poteva fare a meno di essere a dir poco allusiva all’educazione cattolica… Comunque in quelle sale cinematografiche si poteva contare su cartoni animati di ogni tipo e su un pubblico allegramente vociante.

Una volta l’anno venivano proiettati Marcellino pane e vino con l’indimenticabile bambino Pablito Calvo, e la saga di Don Camillo e Peppone, inaugurata da quel maestro del cinema poetico francese, che era Julien Duvivier, in perfetta sintonia sul set con Fernandel e Gino Cervi. Una “serie” riservata non tanto a noi piccoli, ma ai genitori, zii, nonni: democristiani o comunisti che fossero, chiamati a fronteggiarsi ideologicamente in sala.

E poi, c’erano i Cineclub, che meriterebbero una storia a parte: nella loro straordinaria stagione di vita, dal dopoguerra agli anni ’70, hanno fatto conoscere, nella maniera migliore, l’avventurosa storia del cinema italiano, francese, americano, tedesco, inglese, sovietico, ungherese, cecoslovacco, polacco, spagnolo, svedese. L’arricchimento del gusto estetico, i princìpi di tolleranza e giustizia erano la musica di fondo nelle sale dei Cineclub, e la loro scomparsa ha, probabilmente, contribuito al progressivo (speriamo arrestabile) livellamento dell’offerta e della domanda cinematografica.

Per debito di riconoscenza voglio ricordare una sala romana a me cara che non esiste più: quella del Rialto, un piccolo cinema prima di Piazza Venezia in cui operava il Circolo Charlie Chaplin, che la domenica mattina proiettava, accompagnate da schede di approfondimento, le pellicole più significative della storia della settima arte. Anche una, per me, importante love story con una ragazza che studiava lingue è iniziata nelle prime file del Rialto su quelle scomode sedie di legno, con il sedile basculante, una storia tuttora senza interruzioni.

Il “cinema” era il tema di conversazioni appassionate che nascevano già all’interno di quelle sale – il debito del cinema con la letteratura e il teatro, lo “specifico filmico” (da Béla Balázs a Galvano Della Volpe), la bellezza della colonna sonora, il cinema come immaginario collettivo, il valore della sceneggiatura – e che poi sono rimaste nella memoria degli spettatori di allora come sul cloud, pronte per essere scaricate.

Certo, andare al cinema era un’esperienza completa che si sviluppava tra la finzione della trama e la realtà di quel contesto, e quando le condizioni sono mutate è come se lo spettacolo fosse stato bruscamente interrotto, con gli spettatori rimasti al buio dopo che il fascio di luce che attraversava la sala si era spento.

Molti cinema sono scomparsi nel nulla, altri sono diventati supermercati, sale Bingo, imponenti negozi di poltrone e divani; i film hanno migrato nelle multisale, sui nostri computer o dentro le case sugli schermi della TV. I gusti stessi sono cambiati nell’era digitale, i ritmi narrativi sono più accelerati ma permane il prodigio di quell’impasto di immagini, suoni e parole che soltanto qualche film sa creare.

A nove anni mio padre e mia madre mi portarono al Rivoli, un elegante cinema di prima visione vicino a Via Veneto, a vedere Viale del Tramonto di Billy Wilder. La potente bellezza delle immagini mi inchiodò sulla poltrona blu per tutta la durata del film, anche se il tema della crudeltà del Tempo non era particolarmente adatto alla mia età. Ora lo sarebbe molto di più.

La prima inquadratura è quella di una piscina dove galleggia William Holden a testa in giù: è stato assassinato, ma subito inizia a raccontarci la sua storia legata al mondo del cinema (era uno sceneggiatore) e a una grande diva del passato, Gloria Swanson, che, assistita da un espressionistico maggiordomo, ex regista (uno straordinario Erich von Stroheim), lotta contro l’oblio che la circonda. Trovavo intrigante il fatto di un morto che educatamente presentava il suo cadavere e, con tono pacato, raccontava allo spettatore le ultime settimane della sua vita: una lezione di tecnica del racconto “illogico” all’indietro che, alle elementari degli anni Cinquanta, se adottata in un tema, sarebbe stata bocciata.

Ecco, quando il Cinema Rivoli chiuse per sempre i battenti, immaginai che il fantasma dell’attore americano continuasse ad aggirarsi tra le poltrone blu pavone e nei suoi numerosi anfratti per rievocare i fasti dell’epoca d’oro del cinema. Già, i fantasmi ora presenti in quelle sale sono proprio le immagini, i suoni e le parole che le hanno abitate.

Per questo vorrei concludere con una modesta proposta che riguarda i Cinema ormai scomparsi e quelli che hanno subìto una totale metamorfosi: sarebbe giusto che gli amministratori comunali – per onorare quei luoghi di cultura e di incontro nati e vissuti nel Novecento – deliberassero di apporre almeno una targa in ricordo del periodo di vita delle varie sale cinematografiche. Un tardivo riconoscimento alla funzione che hanno svolto per la crescita culturale di varie generazioni.

Centinaia e centinaia di targhe in tutta Italia, uno straordinario album per gli amanti del cinema, una Spoon River del nostro immaginario filmico.


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