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Il futuro della competitività europea. Incontro a Roma con il German Marshall Fund

I due choc economici, la pandemia e l’impennata dei prezzi dell’energia, l’invasione russa dell’Ucraina, la transizione verde e l’adozione delle tecnologie di frontiera sono tutti elementi che rischiano di impantanare l’Europa mentre Stati Uniti e Cina rendono le loro economie sempre più dinamiche. Il German Marshall Fund sta preparando un rapporto paneuropeo sul tema della competitività, coinvolgendo grandi aziende e start-up, istituzioni, politici e accademici. Li abbiamo incontrati nella loro tappa romana

Il German Marshall Fund (GMF), think tank con sede a Washington e uffici a Berlino, Bruxelles, Ankara, Belgrado, Bucarest, Parigi e Varsavia, sta preparando un rapporto sulla competitività europea: come può il nostro continente tenere il passo di Stati Uniti e Cina, come può affrontare i costi della transizione energetica, l’aggiornamento delle competenze, lo snellimento della burocrazia? A questa domanda proverà a rispondere Mario Draghi, che presenterà una sua proposta a Ursula von der Leyen poco prima delle elezioni di giugno. In modo indipendente ma con obiettivi simili, gli esperti del GMF stanno incontrando grandi aziende e start-up, politici, rappresentanti delle istituzioni e professori universitari di molte città europee, al fine di preparare un rapporto che sarà pubblicato ad aprile. Nella loro tappa romana ho incontrato l’economista Jacob Kirkegaard e Sudha David-Wilp, direttrice dell’ufficio di Berlino, che mi hanno spiegato qual è l’obiettivo del loro lavoro e cosa è emerso finora da questo “ascolto” paneuropeo.  

“Il GMF è un’organizzazione che intende rafforzare le relazioni transatlantiche”, dice David-Wilp. “E un’Europa forte è una componente necessaria per una relazione transatlantica forte. La domanda che ci poniamo è se Stati Uniti ed Europa siano in grado di prosperare come hanno fatto finora. Nello spirito del Piano Marshall, l’obiettivo è una allied competitiveness”, una competitività non contro ma a beneficio di tutti gli alleati. “Per farlo, abbiamo bisogno di conoscere meglio la situazione europea”.

Ma perché in questi mesi il tema della competitività è diventato così centrale? Risponde Kirkegaard: “In Europa abbiamo avuto due choc economici: la pandemia e l’impennata dei prezzi dell’energia scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina. In più stiamo affrontando una transizione verde che ha importanti conseguenze sociali, come si vede dalle proteste degli agricoltori. Aggiungi le tecnologie emergenti, tra tutte l’intelligenza artificiale e il quantum computing, e in molte capitali europee si è diffusa questa sorta di paura esistenziale: stiamo perdendo terreno”.

Eppure, mentre gli Stati Uniti hanno puntato forte sugli investimenti green con l’Inflation Reduction Act (IRA), e la Cina domina i settori dei veicoli elettrici, dei pannelli solari e delle pale eoliche soprattutto grazie a massicci investimenti pubblici, l’Europa non ha una sua capacità di finanziamento comunitario. “Per questo i leader dell’Unione hanno incaricato Mario Draghi di tracciare una strada. E rispondere alla domanda delle domande: cosa significa competitività in un mondo multipolare?”, aggiunge Kirkegaard.

Competitività europea non vuol dire solo efficienza, produttività o ammodernamento di singole aziende, ma di intere architetture istituzionali. È opinione diffusa che siano necessarie una riforma del mercato dei capitali, la creazione di una fiscalità comune, e un ripensamento radicale dei vincoli agli aiuti di Stato. La paura di restare indietro rispetto a Stati Uniti e Asia, e di diventare economie di serie B, basterà a convincere gli Stati membri a mettere mano all’ordinamento europeo, e a delegare ancora più potere e responsabilità a Bruxelles?

Kirkegaard è ottimista. “Con il Covid abbiamo visto il più grande attivismo europeo degli ultimi decenni. Il Recovery Plan è la prima grande dotazione comune di fondi, peraltro orientati alle transizioni digitale e verde e non solo come risposta all’emergenza sanitaria. È sicuramente un piano che sussidia e promuove la competitività”.

Il quadro non è del tutto negativo. “L’Europa è avanti rispetto agli altri competitor economici in alcuni parametri importanti, tra cui la bilancia commerciale, l’aspettativa e la qualità della vita, il know-how in settori avanzati”.

Però ci sono indicatori, come gli investimenti in Ricerca e Sviluppo, il numero dei brevetti e dei laureati, che disegnano un bivio nei prossimi anni: Stati Uniti e Cina restano sull’autostrada, l’Europa prende la provinciale. “Dunque immagino che Draghi ci dirà che servono più progetti comuni, più finanziamenti a livello europeo nella tecnologia, nell’energia pulita, nella difesa. Ci sono sfide che si possono affrontare solo a livello continentale. I membri dell’Unione che finora si sono opposti a questo percorso, come la Germania, i Paesi Bassi o gli Scandinavi, devono capire che i tempi sono cambiati”, sferza Kirkegaard.

L’ultima domanda non può che riguardare il rapporto transatlantico, e come può cambiare con la possibile vittoria di Donald Trump alle presidenziali di novembre. Attenzione: sebbene Joe Biden sia il presidente più “filo-europeo” degli ultimi anni (più di Trump, ovviamente, ma anche più di Obama), mosse come l’Inflation Reduction Act, il Chips Act, la mancata nomina dei giudici al Wto, dimostrano che quando si tratta del vantaggio strategico sulla Cina, gli Usa non guardano in faccia a nessuno. E allora come si costruisce una relazione commerciale, tecnologica e accademica più forte?

David-Wilp riconosce che l’IRA ha suscitato “molta costernazione da parte degli europei con cui abbiamo parlato. Ma non tutti l’hanno accolta allo stesso modo. In Germania, all’inizio, il Paese è entrato in modalità panico: è arrivato il momento della de-industrializzazione tedesca. Ma parlando con danesi e spagnoli abbiamo trovato interlocutori decisamente più nonchalant, convinti che la legislazione americana sia ottima anche per la loro transizione energetica verde. Trovare un modo per rendere questa transizione più socialmente accettabile sarà sicuramente uno dei compiti principali della prossima Commissione europea”.

Quali sono quindi degli spazi di collaborazione rafforzata? “Le tecnologie del futuro, l’IA, le biotecnologie, per due regioni con gli stessi valori democratici sarebbe fondamentale creare standard comuni in questi campi. Certo, in caso di elezione di Trump non sarà altrettanto facile”, conclude David-Wilp.

Kirkegaard approfondisce la questione IRA, “una legge sicuramente positiva, essendo la prima volta che il governo federale degli Stati Uniti impiega vere risorse per progetti green. Non dimentichiamo che l’Europa ha sovvenzionato e dato priorità a questo settore per almeno due decenni. È stata davvero una buona notizia, una grande spinta nella direzione giusta. Non sufficiente per rispettare gli impegni al 2030, ma di sicuro velocizza l’abbandono degli idrocarburi. Questo grande “risucchio” di posti di lavoro da oltreoceano, da economista, lo considero una bufala. Strumentalizzata da alcuni politici, in particolare dal presidente francese Macron, che hanno usato la scusa dell’IRA per avere mano libera nel concedere sussidi alle imprese francesi. E lo stesso è avvenuto con la Germania. Dipingendola come grande minaccia alle nostre econome, la Commissione ha allentato i vincoli sugli aiuti di Stato. Non a caso sono i due paesi ad aver ricevuto la gran parte delle autorizzazioni in questo campo. Le aziende europee investono in America perché ora c’è un mercato? È fantastico. Quanti posti di lavoro green sono stati cancellati dalle nostre parti a causa di tali investimenti? Molto molto pochi, oserei dire zero. In Europa il tasso di crescita dei lavoratori nella transizione ecologica resta altissimo, anche perché noi abbiamo la migliore strategia economica in questo campo. Gli Stati Uniti e la Cina sovvenzionano le aziende più ecologiche, noi invece rendiamo più costoso inquinare. Il carbon price è uno strumento decisamente più efficiente”.

Resta la questione del prossimo inquilino della Casa Bianca. “Frizioni commerciali sono inevitabili, anche perché, come detto prima, chiunque sia il prossimo presidente, la politica commerciale non cambierà. Oggi gli Stati Uniti sono un paese protezionista, la maggioranza al Congresso è protezionista. Non era così 20 anni fa. Certo, ci sono il Trade and Technology council e altre iniziative transatlantiche che potranno dare buoni risultati. Ma l’Europa deve abituarsi a una realtà politica nuova. Un’eventuale elezione di Trump avrebbe ripercussioni dirompenti sul resto del mondo, in particolare sulle garanzie di sicurezza esercitate attraverso la Nato”, è la laconica conclusione di Kirkegaard.

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